La danza c’è, anche quando non si vede. La danza parla di sé, mentre si danza. Artisti ormai affermati e nuove generazioni segnano una svolta tutta italiana.
Se il fenomeno della “danse indisciplinaire” aveva innervato la Francia con figure come Xavier Leroy e il suo Self Unfinished, icona del corpo sottosopra, e Jérôme Bel, ora impegnato a presentare il suo auto-ritratto in un nuovo “sistema ecologico di produzione artistica”, affidandolo cioè a chi sta in loco, anziché viaggiando con il proprio gruppo, come si è visto al Piccolo Teatro Di Milano con i performer guidati da Marco D’Agostin, l’effetto d’Oltralpe ha prodotto le sue “contraddanze” nella penisola.
“Il teatro è povero, non è Hollywood, ma è capace di fare comunità” dice Bel, artiste associé del Centre National de la Danse di Parigi.
Supremo maestro di “contraddanza”, molto amato in Francia, dove è stato “adottato”, adesso è l’italiano Alessandro Sciarroni, artista associato della Triennale di Milano.
Da Venezia a New York
Il Leone d’Oro della Biennale Danza di Venezia, che la direttrice canadese Marie Chouinard gli attribuì nel 2019, fece scandalo scatenando discussioni accese, giacché Sciarroni aveva caratteristiche anomale rispetto ai premiati “canonici” precedenti, “veri” coreografi come Carolyn Carlson, Jiri Kylián, Pina Bausch, William Forsythe.
Ma i lavori firmati Sciarroni, che possono agilmente proporsi nei cartelloni di danza o nel contesto di mostre e musei, hanno comunque mostrato una incisività di primo piano e guadagnato il favore internazionale.
Ogni creazione dell’artista quarantatottenne, nato a San Benedetto del Tronto, trae ispirazione da fonti inattese: lo Schuhplattln altoatesino in Folk-S, con saltelli e schiaffetti sulle gambe ad oltranza, il football per ipovedenti e non vedenti in Aurora, la risata clownesca in Augusto, dal nome del pagliaccio per antonomasia, la polka chinata, ballo maschile a ginocchia piegate tipico dei portici bolognesi ai primi del Novecento, per Save the Last Dance for me, un grande successo in Europa, con più di 100 repliche e anche negli Stati Uniti, con ampio servizio sul «New York Times» nel 2023.
Adesso a intrigare l’inventiva curiosa e sorprendente di questo protagonista assoluto delle performing arts sono le “voci coreografate” per il suo ultimo lavoro, U. (un canto), che ha di nuovo alimentato consensi e dissensi da Parigi a Milano, da Bonn alla Svizzera.
Coreografare il canto, qualche domanda a Alessandro Sciarroni
Elisa Guzzo Vaccarino: Come è nato questo progetto di “canto coreografato”?
Alessandro Sciarroni: L’innesco è stato due anni fa con Voci del mondo reale per Les soirées nomades di Fondation Cartier“ in sinergia con la Triennale e usando tutti i suoi spazi nella mostra Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, con un coro solo maschile, Voci dalla Rocca, e uno di ragazzi, I piccoli cantori delle colline di Brianza, per brani dal Caucaso al Mediterraneo e dall’Armenia al Portogallo via Nord Africa.
E.G.V.: Si può dire che, nel percorso di un artista a tutto campo, “indisciplinato”, le collaborazioni sono il sale della creatività?
A.S.: Per U. (un canto) ho lavorato insieme ai compositori e performer catalani Aurora Bauzà, che esplora la relazione voce-corpo, e Pere Jou, compositore trasversale ai generi che pure lavora con il corpo e canta lui stesso, già coinvolti in Save the Last dance for me, il duo sulla polka con Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini, adesso specialisti di un ballo che era ormai quasi perduto.
E.G.V.: Anche per questo nuovo “U. (un canto)” c’è il recupero di una tradizione?
A.S.: È un lavoro corale, per sette interpreti, con brani dal repertorio italiano folkloristico, composti tra la metà del Novecento e i giorni nostri. In Italia ha debuttato a Bolzano Danza, che è partner di Ring, con la Triennale e il festival Aperto di Reggio Emilia; in Francia è partito dal “Festival d’Automne” parigino. Di qui in poi viaggerà.
E.G.V.: Parigi accoglie come sempre gli stranieri di talento?
A.S.: Il centro Centquatre-104 parigino presenta regolarmente il mio lavoro, come artista associato.
E.G.V.: Da dove vengono i brani di “U. (un canto)” incarnati nei performer?
A.S.: Sono canti di montagna del Veneto e del Trentino, recenti, nati tra il 1968 e il 2019, in una tradizione musicale che ha però radici lontane; sono commosso dalla loro bellezza e umanità, in questo tempo dove l’istinto porterebbe a trattare piuttosto di guerre e disastri climatici; invece qui i testi parlano di uomo-natura, uomo-paesaggio, stagioni, lavori dei campi, amore sacro e amore profano.
E.G.V.: Si potrebbe dire che sono voci coreografate? Come sono stati scelti i perf-cantanti?
A.S.: La coreografia è minimale, a semicerchio con qualche passo di spostamento avanti e indietro, per tre attori della scuola del Piccolo Teatro, una danzatrice di Tino Sehgal, e tre cantanti.
E.G.V.: Ci sono anche pause nel tessuto corpo-canto; come dialogano voci e silenzi?
A.S.: Tra un canto e l’altro c’è silenzio, chiaramente senza per questo chiamare gli applausi; sono solo pause; e ci sono scritte proiettate a introdurre i brani.
E.G.V.: “Un inno di speranza e amore che evoca il mistero dell’esistenza e la meraviglia della vita”: così è descritto “U. (un canto)”. In che senso?
A.S.: Per me la scoperta di questi canti è stata un incontro, spero che lo sia anche per gli altri, perché queste parole sono parte di tutti noi.
Parlare di danza danzando
Nell’universo vibrante di energie fresche delle nuove generazioni di coreo-danzatori italiani, dopo tanti lavori di tono drammatico, spirituale, serio, enigmatico, a-disciplinare o inter-disciplinare, si fa strada una certa voglia di leggerezza, di “auto-critica danzante” ragionando sulla danza stessa.
Alla NID, Open Studios, piattaforma del contemporaneo nazionale per occhi italiani e stranieri, Emanuele Rosa e Maria Focaraccio cioè EM+, in Amən hanno ben giocato finalmente la carta dell’ironia sul tormentone dell’identità maschile e femminile o “altra”, diventata la tematica e l’estetica di troppe proposte “facili” in anni recenti.
Alla Vetrina Domani del festival Milano Oltre, Vittorio Pagani in A Solo In The Spotlights ha messo in scena con spirito i cliché dell’audizione a oltranza, agli ordini di un invisibile coreografo-boss, e Francesca Santamaria in Good Vibes Only (beta test) ha mixato un set di bei passi accademici, perfettamente eseguiti, con le routine dei videoclip più pop- la super star Beyoncé del resto in suo promovideo aveva copiato le Rosas di Anne Teresa De Keersamaeker, capofila della danza contemporanea belga, in un vortice di velocità fisica e mentale tutta in crescendo.
La giovanissima Lucia Di Pietro, alle Officine Caos delle Vallette di Torino, uno dei primi quartieri sfavoriti periferici a dotarsi di attività teatrali e culturali sul territorio, ha debuttato con KaraOCHE, spiritosa messa in scena di un karaoke bar frequentato, da “persone animali”, oche, aragoste e polli arrosto giganti, alle prese con l’esistenza quotidiana, raccontata in souplesse, cantando, parlando, danzando.
Un fratello maggiore di queste new entry, Carlo Massari, gioca persino la carta della pantomima più amena e dell’illusionismo plastico più sorridente per Strangers in the Night, trio maschile, che pesca dalla serissima e inquietante Metamorfosi di Kafka, di scena in tanti calendari di prestigio, dal festival di Rovereto alla Fonderia di Reggio Emilia, da Bologna, dove è nato, al Teatro India di Roma.