Fuori dai denti/ Il baricentro di Venezia

Fuori dai denti/ Il baricentro di Venezia

Baricentro di Venezia, la capitale mondiale dell’Arte, della galassia formata da Dubai, Parigi, Pechino, Miami, Hollywood, Basilea, Mumbai, San Paolo ecc ecc, non sono i Giardini o l’Arsenale della Biennale, dove accorrono frotte di aspiranti dello spirito e dove dubito (e da almeno quindici anni) che se ne sia trovato uno; non si trova alla sede della Fondazione Cini (S. Giorgio), dove campeggia la famosa tela fregata esattamente duecent’anni fa da Napoleone e ricollocata nella splendida cornice del Refettorio dove fu concepita (dopo due di lavoro di un’équipe di 10 esperti guidata da Adam Lowe – la miracolosa tecnologia!)  di Veronese.

Non si trova sulle Fondamenta del famoso Ponte dell’Accademia più ricca del mondo, né su quelle Incurabili del grande poeta russo testimone della propria agonia e ultimo a denunciare quella dell’amata città; non si trova nemmeno nella Galleria Michela Rizzo alla Giudecca, dove quattro sfortunati (un vecchietto sorpassato, un giovane di belle speranze, una signora venuta addirittura da Buenos Aires e un sodale nientepopodimeno che di Fabio Mauri) faticano a risalire la china del letamaio mondiale che ormai da trent’anni ammorba l’etere (occhio alle date e auguri ai loro sforzi: una capatina se la meritano).

Il baricentro della galassia dell’arte, fortunatamente sopravissuto a questo tsunami dell’Arte dell’ignoranza di massa, si trova esattamente a Palazzo Cini (Dorsoduro 864).

La gravità di due buchi neri assediava Venezia a meno di 50 metri di distanza: Anish Kapoor (s’è bevuto il cervello) e Chun Kwang Young, rispettivamente alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Contarini. Una lampante dimostrazione che è il denaro (milioni e milioni di euro profusi per l’allestimento della loro monnezza) il principale virus che alimenta la metastasi di cui parlavo. Altro che Corona!

L’esposizione baricentro di Venezia

Ma che sospiro di sollievo! Nelle modeste sale di un’architettura degna di questo nome (vivere la scala!) campeggiano i cieli di Beato Angelico, dei due Daddi e di tanti, tantissimi piccoli e grandi capolavori (per esempio I Due Amici di Pontormo), ma soprattutto “brilla di luce diffusa” quello delle Veneri di un grande artista scomparso 35 anni fa, a 65 della sua vita (iniziata come pilota della Wermacht). Se c’è uno spirito che rincuora tutti noi che l’arte non sia ancora morta sotto i colpi dell’ignoranza di massa, uno che ha guardato con attenzione incomparabile la Venere di Willendorf come le Madonne di Piero passando dalle Caverne d’Altamira al clou della tragedia sofferta dalla sua terra, questi si chiama Joseph Beuys.

L’arte è veicolo d’un piacere sottile che ha a che vedere prima con l’occhio e poi con la memoria (il cervello) e raramente è successo nella mia ormai lunga carriera di vecchietto dell’Arte di vedere una mostra meglio curata e di cotale peso artistico (baricentrato, appunto). Grazie Luca Massimo Barbero.

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