“Lui” è Ashkan Khatibi

Foto di Lorenzo Ceva Valla. Courtesy Teatro Franco Parenti
Il teatro in Iran

Il teatro iraniano classico si identifica con la Ta’ziye che in lingua araba significa esprimere compassione. Essa è l’unica forma drammaturgica tradizionale islamica, un vero e proprio apparato rituale, strettamente connesso alle cerimonie luttuose.

Le prime influenze di teatro occidentale in Iran si hanno soltanto tra la metà e la fine dell’800, grazie al lavoro degli intellettuali riformisti che introducono stili e testi diversi da quelli tradizionali persiani. Tutto questo si interrompe nel 1979, con l’avvento della rivoluzione khomeinista. Da quel momento l’ossessione della commissione istituita ad hoc per il teatro è vigilare sull’aderenza dei testi ai principi islamici.

Censura

Oggi si può censurare una messa in scena che preveda una sigaretta nelle mani di una donna o un bacio fra una coppia eterosessuale. Mentre può succedere – come nello spettacolo Caligola di Homayoun Ghanizadeh – che sia ammessa una scena nella quale  i corpi dei senatori romani uccisi siano riposti in sacchi di plastica del tutto simili a quelli usati per portare via i cadaveri dei manifestanti morti durante le proteste contro Mahmud Ahmadinejad nel 2013. La violenza non è una tematica pericolosa per la commissione, forse perché praticata frequentemente.

Oggi sono pochissimi i lavori di drammaturghi contemporanei iraniani, viventi in Iran, che riescono a superare i confini del Paese. Quando questo avviene spesso si tratta di artisti, autori o tecnici che hanno lasciato il proprio Paese, senza possibilità di rientrarvi a meno di rischiare la prigione, nella migliore delle ipotesi.

Lui

Ashkan Khatibi (1979) è un attore, regista, cantante e produttore iraniano che da tempo non vive nel Paese di origine e, da esule là molto popolare, mette in scena lavori che raccontano di sofferenza, di dolore. Sono storie nelle quali non esiste la possibilità di redenzione dal male. Esso rappresenta il sistema di vita che opprime le persone, che le elimina o le spinge ad uccidersi.

Al Teatro Franco Parenti di Milano, che ha già ospitato il suo Le mie tre sorelle, Ashkan Khatibi ha portato il suo ultimo lavoro, Lui, che Baldini e Castoldi ha anche pubblicato nella collana i Lemuri. In scena l’attore e regista è solo con pochi ma significativi arredi che cambiano durante le tredici scene che compongono il lavoro. Per ogni scena c’è un personaggio che ha subito sopraffazione, violenza, annientamento psicologico. Ogni uomo di cui Ashkan Khatibi veste i panni racconta dell’indifferenza del potere verso l’essere umano, dell’assenza di compassione, dell’autocompiacimento nel torturare i corpi deboli. Una violenza verbale, fisica. Ripetuta con identiche modalità, con la stessa crudeltà, con i medesimi esiti.

La vita, la morte, la parola

Tutti i personaggi che Ashkan Khatibi rappresenta sono vivi solo nel ricordo di chi è rimasto. Sono esseri inermi che hanno conosciuto le percosse, la tortura, le intimidazioni, la sparizione. Ma il loro pensiero e la loro parola non muoiono.

Lui è un dramma in lingua farsi (con sovra-titoli in lingua italiana) dal netto stile occidentale. É sostenuto da un testo forte che non concede spazio ad una fugace commozione. Il racconto è aderente alla realtà, è essenziale, costruito con una regia che dosa con equilibrio i tempi, lo stile della recitazione, fino ai cambi costume (che avvengono al buio, sulla scena). La sintonia fra l’autore-regista e i tecnici – spesso visibili per i cambi scena – è totale, il meccanismo non si inceppa mai. La bella e versatile scenografia, che muta a ogni quadro con semplici spostamenti o integrazioni di due grandi paraventi, definisce lo scenario incerto nel quale si muovono i personaggi che Khatibi interpreta. Le luci e il suono si fondono perfettamente sia con il testo che con la recitazione e l’ora e mezza di spettacolo scorre con una tensione costante.

Il testo e la rappresentazione

La sofferenza emerge non solo dalle parole ma dalle espressioni del volto, dai movimenti, dai sobbalzi del corpo di Ashkan Khatibi che vibra sotto l’azione della mano invisibile del torturatore che gli torce il braccio, gli spara al torace, gli sbatte il volto con forza sul tavolo. L’attore-autore lascia intendere la presenza dell’aguzzino e ne fa sentire solo la voce, fuori campo. Se non fosse per gli stralci delle belle poesie inserite nel testo, come quella di Nizzar Qabbani pronunciata da una madre: “Non tutti i passeri hanno un nido / Eccetto quelli che scelgono la libertà / Sono loro a morire lontano dalla Patria… “, sarebbe persino superflua la traduzione. Il dolore è dolore, trascende le barriere geografiche e linguistiche.

Il grido di Ashkan Khatibi è quello di un intero popolo, di tutta l’umanità privata delle libertà. In primo luogo della libertà di vivere, come è successo a Yalda Aqafazli, a Majidreza Rahnavard, a Hadis Najafi, a Sarina Esmailzadeh, e a molti altri citati nel testo. Erano tutti giovani, alcuni persino minorenni, uccisi nel corso delle proteste rivoluzionarie “Donna, vita, libertà”. Lui parla anche per loro, testimoniando così la potenza del teatro come forma di resistenza e denuncia sociale.

Lui  di, con e regia Ashkan Khatibi
scenografia Taher Nikkhah
costumi Delshad Marsous
produzione Teatro Franco Parenti / Gruppo teatrale Scagnell