Bellezza, una parola chiave

tra le distanze così ricavate erano gli stessi che aveva utilizzato per le corde della lira: ciò che corrisponde alle leggi della natura è bello e buono, ciò che va contro natura è brutto e cattivo.

E la natura segue sempre misura, ordine e proporzione (come ripeterà anche Aristotele). Certo, ha probabilmente aggiunto Pitagora, se noi guardiamo un cielo stellato o ciò che c’è all’interno di una foresta, vediamo una immane varietà di figure, di forme.

Ma, in questa varietà, il nostro compito è scoprire le regole, l’armonia delle sfere celesti.
Anche l’indistinto, il caotico dell’apparenza può essere ricondotto al numero. Ma se il molteplice può ridursi al definito, ci dovrà essere anche un numero tra i numeri, un rapporto, che determina l’”ordine” più ordinato, quello che sarà chiamato il numero d’oro, divina proporzione e che ancora oggi usiamo chiamare sezione aurea.

Essa è l’anima stessa del mondo e da essa si devono ricavare sia i rapporti interni alle opere dell’uomo, sia i rapporti della figura umana.

È probabilmente proprio in Pitagora e con i pitagorici che viene affrontato per la prima volta coscientemente il problema degli universali elaborando anche una relazione ritenuta logica (direi persino logo-tecnica) tra visibile e invisibile.

La tesi è allora: solo nella cultura classica greco-occidentale viene elaborata una idea (e una pratica, ciò che viene chiamato il classico) che porta al bello oggettivo. Prima, e in altre culture, l’idea di bello non si configura come oggettività. Può essere percettiva, emozionale, simpatetica, empatica, funzionale e quant’altro, ma non viene concettualizzata nella forma del trascendentale.

Indubbiamente il nostro fratello (sic!) Aristotele segue il fantastico mondo aperto (forse?) da Pitagora visto che ci fa presente (da allora…, tanto tempo fa…) che la bellezza va definita o emerge nella relazione con il proprio scopo e che coincide con la forma che questa relazione assume organicamente.

Organicamente significa che la forma bellezza sta nell’essere un intero ordinato che ha in sé la propria “misura”. Qualcuno direbbe che la bellezza si presenta là dove non si può togliere ne aggiungere alcunché. Aristotele, allora, tiene assieme ciò che noi abbiamo molto tempo dopo, alla fine del millesettecento, separato radicalmente: il bello di natura dal bello artificiale.

Anche per Aristotele non sono la stessa cosa, visto che nel bello della natura il fine è precostituito, mentre nel bello artificiale (che significa umano, troppo umano) è prodotto, cioè non è naturale; ma hanno lo stesso orizzonte di senso, cioè il fatto che tutto può trascendere nell’orizzonte metafisico.

Mentre per noi, tra Kant ed Hegel, è avvenuta la separazione in qualche modo definitiva tra bello di natura e bello artificiale con l’invenzione dei valori, ancora attuali, attorno all’opera d’arte nel mondo greco classico permane un finalismo che tiene assieme uomo e natura pur nella loro distanza.

Comunque, da allora la bellezza è ordine e misura anche se l’intreccio tra cultura classica greca e il mondo neotestamentario ha permesso di accettare una dimensione empatica che include nella rappresentazione la dimensione della finitudine che caratterizza l’essere uomo dell’uomo, il suo essere mortale.

Come ben possiamo immaginare è difficile coniugare il bello con la nostra finitudine e quindi con la morte e con la paura che l’accompagna, anche se la sublimità spesso ci ha provato. Il bello d’impostazione metafisica rinvia sempre all’ordine e alla misura, anche quando è costretto (ancora l’umano e il troppo umano) a misurarsi con tutto ciò che ci sfugge e che comunque è vitale.

Proviamo una contro deduzione. Nessuno può negare che una delle questioni fondamentali nella formazione delle civiltà o delle varie culture sia il rapporto tra la religione, la rappresentazione del divino e il modo nel quale si vive il mondo e i rapporti sociali. Il divino inevitabilmente trascende e quindi è nell’apertura al divino in tutte le sue forme che si modellano gli universali (c’è un inevitabile intreccio tra teologia, filosofia ed estetica).

Senza pretendere che la considerazione che segue sia di per sé vera, ma solo plausibile, provate a rimemorizzare, inseguendo la vostra stessa curiosità immaginifica, tutte le rappresentazioni della divinità da parte di civiltà, mondi, culture, precedenti o diverse da quella greca.

Lo avete fatto? Le divinità assiro babilonesi, piuttosto che quelle dell’antica India, quelle del Giappone, che quelle Maya, o quelle recuperate dagli studi sui così detti popoli primitivi, e così memorizzando.

L’elemento che caratterizza queste immagini del divino è il tremendo, il terrificante, lo spaventoso, il mostruoso, l’enorme, il deforme, di certo mai la bellezza intesa come ordine e misura. Solo con il mondo greco classico il divino prende le forme della bellezza e si pone nel contempo come trascendete e come universale.

Certo nell’arte così detta classica rimarranno residui del perturbante mitologico, così come nel momento nel quale si ibriderà con il cristianesimo emergerà il patetico, umano troppo umano, che ha le radici nel nuovo testamento: l’empatia che si coniuga con l’universale, straordinario!

Di fronte questo intreccio tra la rappresentazione del divino, il trascendente e la costituzione di universali, altri hanno fatto persino una scelta radicale, hanno impedito non solo la rappresentazione del

ROBERTO MASIERO 88 Articoli
Architetto, professore ordinario di Storia dell’Architettura, ha insegnato nelle Università di Venezia, Genova e Trieste. Ha contribuito alla fondazione della Facoltà di Architettura a Trieste e della facoltà Design e Arti dello IUAV, della quale è stato Vicepreside. É stato responsabile per l’UE di un Osservatorio sulle Accademie d’Arte.