La parola che voglio mettere in gioco nell’orizzonte del digitale che sto cercando di decifrare è bellezza. Si dirà: “Ma che c’entra il digitale con la bellezza? E ancora: “Che c’entra il digitale con la filosofia?” Su questa domanda ho la risposta: essendo il digitale non solo questione tecnica, ma molto altro, è inevitabile anche questione filosofica.
In fondo la filosofia può e deve parlare di quasi tutto. Tant’è! Sulla bellezza forse avete ragione, il digitale c’entra poco, ma proviamo a pensarci comunque.
Si sente continuamente dire che solo la bellezza può salvarci, che la bellezza ci rende ciò che siamo, che siamo la città più bella…il paese più bello…noi si che siamo belli…e così di seguito.
Evidente idolatria. La bellezza si presenta così nel singolare (l’io, il noi) che pretende di essere un universale, e questa presunzione di universalità viene tutta attribuita al bello.
Ma da quando il bello viene presupposto come universale? Si dirà che in ogni cultura, civiltà, tempo, luogo, è esistito il bello e il brutto. Certo, vale per il mi piace e non mi piace, e alle volte anche per è buono o non è buono, funziona bene o male, insomma riguarda i molti modi del rapporto tra noi e le cose e del mondo e noi e gli altri umani.
Perché, come e quando, invece, emerge l’idea di una bellezza assoluta, oggettiva che trascende i nostri piaceri e bisogni, che ci trascende?
Per rispondere devo evocare Pitagora e siamo alla fine del Cinquecento a.C. A Pitagora viene attribuita l’affermazione che l’anima è immortale, che il kosmos è ordinato, che tutto è numero.
Tale affermazione nasce, così si racconta, dall’osservazione del movimento degli astri, dallo studio sulla cristallografia, ma soprattutto dello studio attorno al rapporto esistente tra le note e la lunghezza delle corde degli strumenti musicali e quindi attorno all’armonia.
Come è possibile e che significato ha l’armonia? Si racconta che tornato dal lungo viaggio in Egitto (allora significava andare dove dominava un immane impero) Pitagora abbia riunito i suoi allievi e abbia costruito davanti a loro uno strumento musicale composto da sette corde di misure diverse, disposte con ordine: una lira.
Pitagora fece suonare le sette corde e chiese agli allievi cosa provavano provassero. Tutti risposero di avere sentito un suono bellissimo. Poi Pitagora prese una delle corde e la sostituì con una più grande: non c’era più una successione ordinata e suonò. Subito gli allievi si tapparono le orecchie e dissero che quello era proprio un suono spiacevole, che creava persino disagio.
Allora Pitagora prese una grande conchiglia, la tagliò in due e misurò la distanza in un unico asse tra le spirali. Poi mostrò come i rapporti