Vladimir Jankélévitch, un filosofo nel limbo 

Vladimir Jankélévitch, un filosofo nel limbo 

Quando andavo al liceo, non tornavo subito a casa. Passavo qualche ora nella bottega di mio zio, rilegatore di libri, e così guadagnavo qualche spicciolo. Lui accendeva la radio per ascoltare Radio Sorbonne. Sentivo spesso le conferenze di Vladimir Jankélévitch, che per trent’anni ha tenuto in quella importante istituzione la cattedra di filosofia. Aveva il dono di esprimersi con chiarezza e non senza fantasia. Mai noioso. Trattava spesso di argomenti di morale.
Ma all’università non ho mai sentito parlare di lui. I suoi libri si potevano trovare facilmente nelle librerie, ma non sembrava godere di fortuna all’epoca di Foucault, di Deleuze e di Derrida. Non faceva parte dei filosofi alla moda. Era rispettato, ma era messo in un angolo. É vero: non era un rivoluzionario del pensiero.

Jankélévitch, l’incontro con Bergson

Vladimir Jankélévitch è nato a Bourges nel 1903 da genitori russi e ebrei, entrambi medici, muore nel 1985. Nel 1932, entrato nell’Ecole Nationale Supérieure, ebbe per professore Léon Brunschvig. L’anno successivo, incontrò Henri Bergson, che lo lo influenzò molto.

Il suo primo libro, proprio su Bergson, è del 1931.  Vince il concorso dell’agrégation nel 1926 e insegna all’Istituto Francese di Praga tra 1927 e 1932. In questo periodo pubblica numerosi articoli. Sostiene la sua tesi nel 1933 che ha per titolo L’Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Lessing. La sua tesi complementare  si intitola Valeur et signification de la mauvaise conscience. Si capisce subito che non vuole legarsi a una scuola particolare, sia antica o moderna. E nel 1934 è professore al Liceo del Parco a Lione. Due anni dopo, diventa supplente alla Facoltà dei Lettere di Besançon.  Pubblica L’Ironie ou la bonne coscience. Poi, dal 1936 al 1937, è maître de conférence all’università di lettere di Tolosa. Nel 1938, pubblica il suo primo libro su un musicista: Gabriel Fauré et ses mélodies. La musica rimarrà sempre una passione forte per lui e giocherà un ruolo importante nella sua concezione del tempo. Diventa maître de conférence all’università di Lille nel 1939 e s’installa a Parigi, Quai aux Feurs. Pubblica in quel tempo un libro su Maurice Ravel.

Il periodo della guerra

Arrriva la guerra. Ferito nel giugno 1940, passa due mesi all’ospedale di Marmande. La sua vita cambia completamente. Essendo ebreo, noin puo più insegnare e inoltre gli viene tolta la citadinanza francese. Fa parte della rete di resistenza della Stella. Riesce a pubblicare, a Lione, il saggio Du mensonge. Nel 1943, è clandestino presso l’Institut Catholique de Solages. L’anno successivo, fa parte del Front National Universitaire. Vive nascosto nella Haute-Garonne.

Alla Liberazione, è nominato direttore dei programmi musicali della radio di Tolosa. Poi diventa maître de conférence all’Università di Lille. Nel 1949, esce la sua opera omnia, Le Traité des vertus e, nello stesso tempo, Debussy et le mystère. Nel 1951 gli viene assegnata dalla Sorbonne la cattedra di Flosofia che terrà per trent’anni.

Alla fine della guerra, il suo pensiero va un po controcerrente  rispetto allo spirito dei tempi caratterizzato dall’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre e di altre figure come Albert Camus, Maurice Merleau-Ponty. Le sue considerazioni sull’etica non hanno seguito. Tra i temi trattati, l’amore, la morte. Non c’è nei suoi scritti un principio sistematico, semmai una logica particolare, ma che non è del tutto lineare.  Per lui conta solo il momento fuggente che sarebbe una rottura nella continuità, nel flusso inesorabile dell’esperienza umana. C’è una sorta di « je-ne-sais-quoi »  che si oppone al principio di continuità.

Jankélévitch, l’istante contro il sistema

Si tratta di momenti-chiave eterogenei grazie ai quali si dà luogo al principio del terzo escluso. Insomma, ci sono due poli  nella sua rappresentazione del tempo: quello che si sviluppa e quello dell’istante  che è un sorgere inaspettato e un categoria specifica di “habitus persistente nell’intervallo”.  Per lui la filosofia è una forma curiosa di impegno e questo impegno non è lontano della vitalità storica.

La pubblicazione in Francia di questo Cahier ((Editions de L’Herne) e anche d’un libro in gran parte inedito, La Conscience juive, dovrebbero indurci a rileggere la sua opera e rivalutarla, soprattutto perché nel nostro tempo la questione morale è in crisi.

Jankélévitch, Cahier, L’Herne, sous la direction di Françoise Schwab, Pierre-Alban Gutkin-Guinfolleau & Jean-François Rey. 294 p. La Conscience juive, Vladimir Jankélévitch, préface de Françoise Schwab Editions de l’Herne, 168 p.

 

Dello stesso autore: Due alchimisti dell’arte, Umberto Mariani e Takahisa Kamiya