Come si può gettare uno sguardo sull’invisibile? Forse è questo il quesito al quale la mostra milanese “Sguardi sull’invisibile. Arte, etica e spiritualità. Julius Evola, Hermann Nitsch, Lara Martinato” vuole dare una risposta. Una risposta articolata, filosofica, che inevitabilmente chiama in causa la necessaria complessità di ambiti diversi del sapere, convocati a raccolta in una sincretica unità.
La mostra si è aperta con un incontro con il curatore dell’iniziativa, Luca Siniscalco, il saggista Andrea Scarabelli e il Generale Antonio Pennino, presidente del Circolo di Cultura e Scienza PiriPiri, una delle diverse associazioni che hanno patrocinato l’iniziativa artistica, rendendo possibile, nella splendida cornice milanese di Palazzo Cusani, questo inedito e affascinante dialogo fra le opere di Evola, Nitsch e Martinato.
Grazie alla funzione dell’arte, grazie al suo alludere ad altro senza mostrarlo, in virtù cioè del suo essere in costante rapporto con ciò che non è e che non è mai effettivamente visibile, e quindi nemmeno rappresentato o rappresentabile nell’opera stessa, ci mettiamo in rapporto con l’alterità cui l’opera è connessa. Dobbiamo tuttavia tenere conto che tale alterità è sempre doppia, ambigua, e possiede come due sponde, due versanti che si richiamano reciprocamente: alterità di un qualsivoglia oggetto ed insieme alterità del soggetto, il quale viene per così dire iniziato dall’opera stessa verso i territori della psiche, i quali sono sempre, per dirla con James Hillman, terreni ctoni, luoghi inferi.
In tal senso, avendo presente il concetto hillmaniano di anima, quale elemento centripeto al quale ogni esperienza deve essere in ultima istanza ricondotta, capiamo subito che l’anima non è abitatrice del regno sotterraneo. Essa è piuttosto quel regno, coincide a tutti gli effetti con il mondo infero, ovvero il mondo dove le leggi di ragione, i dettami del logos solare e diurno non contano più. Ciò perché queste leggi sono ribaltate, amplificate, persino dileggiate, attraverso la logica del sogno che è appunto il luogo dove ciò che era ancora invisibile prende forma, si fa immagine, diventando contenuto rappresentabile per una coscienza.
Le opere dei tre autori della mostra a Palazzo Cusani, poste in un inedito quanto evocativo dialogo, si sintonizzano ognuna col suo particolare linguaggio stilistico, con una specifica qualità o accezione del mondo ctonio, nel senso ampio del regno di psiche.
In effetti, riformulando la domanda iniziale potremmo chiederci: in che modo ciò che non è ancora visibile e conoscibile della nostra psiche può farsi immagine interiore per divenire parte della nostra coscienza? Ciò non vuol significare che il regno di psiche, il regno dell’inconscio e della logica dell’invisibile debba esser violato e ricondotto al mondo supero per essere normalizzato; significa invece che parti inedite della nostra personalità totale, cioè del nostro Sé, possono essere colte con lo sguardo, senza che questo sguardo sia normativo, necessariamente logico e bisognoso di controllo.
Allora comprendiamo che l’invisibile non è altro che ciò che non è ancora visibile, ma che potrà eventualmente farsi immagine se accettiamo l’allusione dell’opera d’arte. Così si manifesta l’azione pontificale dell’arte, in grado di unire due sponde, quella del mondo diurno con quella di un ancora non visibile al di là. Per questo anche l’invisibile è un invisibile per una psiche; anche l’invisibile, infatti, fa parte del regno di psiche e non c’è luogo dell’invisibile che non si trovi comunque già presente in lei.
I tre aspetti del mondo di anima che vengono richiamati dalle opere proposte sono a nostro avviso quelli della ritualità e della riconciliazione con la violenza originaria e con le pulsioni per quanto riguarda Hermann Nitsch, il completo superamento dal mondo del logos e l’importanza dell’esercizio dalla volontà, per quanto riguarda l’opera di Julius Evola, e l’unità della psiche collettiva attraverso la metafora dell’etere nel lavoro di Lara Martinato.
Sono questi tre aspetti essenziali che ci consentono l’accesso al mondo dell’invisibile e che si pongono in un ermetico dialogo con la tradizione esoterica occidentale, confluita poi in parte nella moderna psicologia del profondo.
Innanzitutto Nitsch, con la sua idea di opera totale, e attraverso la centralità dell’azione nella sua concezione di arte, e quindi dell’arte come qualcosa che si fa e si agisce, ci fa intendere che il gesto artistico, oltre ad essere fondativo rispetto alla creazione e alla delimitazione di uno spazio sacro, deve essere un gesto che tenga conto dell’interezza, della complessità e dei vari livelli o strati delle facoltà umane: il sensibile, l’intuitivo, il mondo pulsionale che saranno in grado di dare sostanza ad un nuovo stato edenico, frutto di un’opera di abreazione e di catarsi che tipicamente hanno luogo in quello spazio di sperimentazione di ruoli interiori che è appunto il teatro. Per scendere agli inferi occorre il sangue, e Nitsch conosce molto bene la necessaria discesa agli inferi della nekya.
Eppure tale discesa è una volontaria presa in carico di quelle parti reiette, repellenti, ripugnanti che sono poi il grande rimosso della nostra società, la quale vuol vedere solo il volto buono della psiche.
In tal senso, l’opera di Nitsch ci vuol far sperimentare l’ombra, il male necessario, ma anche lo squartamento, la scissione, l’inevitabile smembramento delle nostre parti inconsce e per questo continuamente proiettate e disperse. Solo attraverso questa dolorosa presa di coscienza si apre la possibilità di vestire, nella nostra vita, abiti da sacerdote, abiti altrimenti destinati solo e soltanto ai custodi ufficiali del culto. Ma nell’epoca che stiamo attraversando ciascuno è chiamato ad essere sacerdote della propria psiche, come anche Jung tentò di insegnare attraverso il suo libro più intimo che non a caso è chiamato Libro Rosso.
L’altro sguardo su una dinamica fondamentale dell’invisibile ci è suggerito dall’opera di Evola, “Paesaggio Dada n.1” opera che, secondo la concezione dell’autore, non deve significare nulla, proprio perché “non vi deve essere nulla da comprendere, nell’arte”.
Questa idea ricorda in maniera sorprendente le parole che Jung mette in bocca all’immagine del mago negli ultimi paragrafi del Libro Rosso, laddove il mago, per insegnare la magia all’Io di Jung, gli confida che “la magia è il negativo di ciò che possiamo sapere”.
In effetti, per far sì che dall’invisibile si comincino a formare delle immagini occorre abbandonare la sponda dualistica del logos, che per giudicare applica il principio di non contraddizione, è necessario abbandonare la sfera della comprensione per entrare nel regno della Libertà carica di potenza, la potenza formatrice, la sola in grado di compiere l’azione magica per eccellenza, ovvero quella di porre a volontà il reale. Tale libertà può essere vista anche come libertà dello Spirito, se intendiamo come spirito ciò che non è più attratto dalle passioni e desideroso di alcunché.
Ma come mai la psiche si esprime ovunque con gli stessi simboli? Perché esistono segni, premonizioni, inspiegabili eventi sincronici? E perché tali fenomeni si verificano quasi sempre quando c’è nel soggetto una certa attivazione dell’inconscio?
Forse la chiave per questo mistero la troviamo nell’opera di Lara Martinato che mette in scena una pluralità di soggetti riuniti sotto l’unità di un elemento misterioso. Tale elemento è quello che Jung chiamò, riprendendo le concezioni alchemiche, “unus mundus”.
Certe manifestazioni sarebbero spiegabili solo in virtù del fatto che la psiche, seppure molteplice, rimane un’unità e come tale deve essere considerata. Potremmo dire di essere immersi nella psiche, più di possederne una.
Ecco allora che il dialogo fra queste opere e fra questi grandi autori, fra azionismo, dadaismo e nuovi sguardi contemporanei, ci permette di far luce su quei luoghi poco frequentati e poco visibili della nostra interiorità e della nostra psiche dai quali la realtà prende continuamente ed inevitabilmente forma e sostanza.