Nanni Moretti scava al terzo piano

Nanni Moretti scava al terzo piano

Dal libro al film

Sembra che chi guardi un film tratto da un libro, dopo aver letto il libro resti deluso. Perché il paragone è inevitabile e ci si riduce a comparare due media opposti attraverso l’unico metro della trama e dello stile. Tanto più se alcuni libri, come “Gomorra”, siano essenzialmente visivi. Non avendo letto il romanzo di Eshkol Nevo “Tre piani”, ho avuto il privilegio di entrare nel film omonimo di Nanni Moretti senza uno spettro letterario in testa.

“Tre piani”: Moretti anti morettiano

Il film è anti  morettiano. Nel senso che l’Italia non c’è. E’ un film girato in una città, Roma, che non mostra se stessa, nessun piano largo a mostrarci la caput mundi. Perché l’essere umano alla fine forse non è figlio di un luogo, ma di una situazione, di un affetto, di una palazzina. Il genius loci di questa storia sono le porte degli inquilini, chiuse o aperte, e la chiusura e apertura parlano della frontiera che la nostra vita affettiva ha rispetto al mondo circostante. Un mondo che non compare, se non nella scena in cui una delle protagoniste, interpretata da Margherita Buy, finisce suo malgrado in una manifestazione contro gli immigrati, che avrebbe potuto aver luogo in qualsiasi capitale del mondo.

Solitudini e allucinazioni negli appartamenti di “Tre piani”

Nessuna connotazione italiana, nessuna problematica legata all’antropologia di un paese specifico. Sono le vicissitudine silenziose perché chiuse dentro appartamenti che qualificano l’identità dell’umanità raccontata. La prima scena è un assurdo e violento incidente stradale, che insieme ad un trauma infantile immaginato dal padre, nelle vesti di cui sorprende un bravissimo e scabro Riccardo Scamarcio, di una bambina avvezza alla frequentazione col vecchio vicino, determinano la storia, insieme alla latente psicosi di una giovane madre in preda ad allucinazioni. Questa è interpretata da  Alba Rohrwacher, che purtroppo non è linea con la recitazione senza connotazioni locali del resto del cast. Una dizione e una postura vicini a un’attitudine romana, piuttosto che una reale recitazione all’altezza dell’ambizione di un  film extra-temporale ed extra-nazionale. Allucinazioni silenziose e solitarie, senza esiti rocamboleschi, solo espresse da un inconscio desiderio sensuale di accettazione, nel quale appare un eccellente Stefano Dionisi, con una presenza forte, da chiedersi come mai i registi italiani non la sfruttino di più. L’accettazione è un caposaldo delle relazioni familiari di questi tre gruppi avvicinati loro malgrado dal vivere in una palazzina comune.

Nanni Moretti, grandioso interprete

Barometro morale di emozioni individuali fallibili, un ligio giudice che non si piega neppure davanti al rischio di veder suo figlio in carcere. Interpretato da un Moretti di poche parole e colossale presenza, questo giudice scandisce il ritmo di una storia che ha la dolcezza e il ritmo della lettura di un libro. Se difatti è uso che un libro sia trasformato in un film, opera più sperimentale è quella di trasformare un film in un libro. Ed è la maggiore novità di questo film.

Questo avviene nel ritmo, non lento, ma pacato come lo svoltare delle pagine. Avviene nell’assenza di musica, presente solo alla svolta di ogni capitolo. Avviene nel rifiuto di stimolare l’emozione attraverso immagini forti e colpi di scena (che pure ci sono). Come in un libro, il film vuole lasciare lo spettatore libero di colmare i vuoti e le pause, gli spazi bianchi, per evocare il titolo dello splendido libro di Giorgio Pressburger “La legge degli spazi bianchi”. Un film che si prefigge una sfida non da poco: non tradurre una trama di un libro, ma la sua natura di libro. Nulla è banale, nulla a caso, nulla di troppo, nulla è stilistico. Per un regista come Nanni Moretti, che della sua persona e del suo paese ha fatto le colonne della sua prospettiva filmica, questo è un esordio.

Fuori dai tre piani, Moretti è stupore e  joie de vivre

Una delle ultime scene, che vede riuniti i protagonisti della storia per strada, fuori dalle porte degli appartamenti di una vita, mostra un pulmino musicale con la musica del tango e una ventina di ballerini che ballano impeccabilmente per la via. Uscendo dai tre piani, i nostri protagonisti si ritrovano ad essere spettatori di una vita che esiste al di fuori delle loro emozioni. E paiono stupiti, come a riveder le stelle. Ma il film non ha retorica, né velleità di implicazioni didascaliche. Forse noi stessi, che ci sentiamo spettatori di una vita che fuori di casa  pare una scena che non ci appartiene, siamo i protagonisti inconsapevoli di vite straordinarie come quel tango severo quanto stupefacente.

Un film da leggere e rileggere, segnare con note a margine, piegare con orecchiette, posare e riprendere, un film ci accompagna, al nostro piano

 

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