Marco Almaviva alla Casa della Cultura di Milano
Una mostra riassuntiva della lunga attività di ricerca dell’artista Marco Almaviva si apre il 19 maggio, e fino al 4 giugno, alla Casa della Cultura di Milano, iniziativa della Sezione Arti Visive Contemporanee coordinata da Carmelo Strano.
Presenti opere della prima ricerca in pittura fatta da Almaviva e intonata alla Tonaltimbrica come l’ha chiamata lui, dal 1967. Opere, anche, dell’ulteriore sviluppo di quest’esperienza, che porta il nome di Filoplastica. Un crescendo nella dimensione della profondità che culminerà, nel 2019, nel Literal e nelle serie di lavori Rectoverso che eliminano il supporto e favoriscono l’autostrutturazione del colore.
Marziano Almaviva, figlio dell’artista e curatore dell’Archivio precisa così quest’approdo che si registra nel 2019, quando il maestro ha 85 anni (è nato a Novi Ligure nel 1934) e un’esperienza di laboratorio pittorico “aperto” di circa 55 anni: “Ciò che di pittorico si forma nel nuovo artefatto è intrinsecamente connaturato con la stessa struttura del supporto. La pittura pertanto non è delimitazione di una superficie data, secondo i canoni della flatness, che nelle sue interne variazioni riproduce l’inevitabile effetto illusionistico di cui il medium pittorico non sembrava in grado di liberarsi, ma coincide, nella sua articolazione cromatica, con la struttura materiale del quadro. La figura, lo sfondo e il supporto diventano perfettamente congruenti.
Nella controversia tra il neo-illusionismo di Michael Fried e il “realismo dei Minimalisti un punto sembrava accomunare le due parti contrapposte: la pittura costituiva l’ostacolo (insuperabile) all’oggettualità letterale del ‘manufatto’ artistico. La dipendenza del medium dalla piattezza della tela, la potenzialità evocativa del colore, che riproponeva l’equivoco di uno spazio rappresentato e diverso da quello reale del quadro e, infine, la questione del retro testimoniavano la piena incompatibilità tra pittura e ‘letteralità’.
Il Rectoverso, invece, è un’opera di pittura ed è totalmente “literal”, al punto che le due facce del quadro sono equivalenti: il recto e il verso coincidono. Ma per la sua realizzazione è stato necessario compiere un ulteriore quanto paradossale passo in avanti, i cui presupposti risalgono alla svolta spazialista di Fontana: fare a meno della superficie, anziché preservarla, conservando, però, la pittura”.
Inoltre, lo studioso si è occupato dell’opportuna premessa alla situazione italiana negli anni cinquanta, cioè il dibattito che si sviluppò in Usa ad opera di Fried (che mise l’accento sulla Post Painterly Abstraction in rapporto alla Flatness di cui aveva parlato il suo maestro Clement Greenberg.
Da qui Marziano Almaviva passa alla situazione che tocca da vicino suo padre Marco: “La lettura delle vicende dell’arte italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta alla luce della forza propositiva dell’arte americana rischia di risolversi in un quadro di sofferta subalternità all’egemonia statunitense, laddove l’interesse di molti artisti di avanguardia, compreso il vivace gruppo di Azimuth, verso l’arte processuale e le pratiche allover, incentrate sulle peculiarità intrinseche della materialità della superficie pittorica, sembra essere condizionato dalla rapida affermazione di artisti come Jasper Johns. Rimane comunque incontestabile che gran parte dei fili in cui si dipana l’intricata trama dell’arte in Italia riconducono, quanto meno, al 1949, quando Lucio Fontana interviene su di una uniforme superficie monocroma, distruggendo ciò che per secoli era stato il fondamento indiscusso della pittura, ovvero l’effettiva planarità della tela (J. Mansoor). E per quanto i due mondi potessero rimanere lontani, ma non per Fontana (che, tra l’altro, rivendicherà la sua diretta conoscenza dell’immensa spazialità della Pampa sudamericana), per gli statunitensi l’atto di nascita dello Spazialismo doveva significare, innanzitutto, eliminazione della flatness e, dunque, fine della pittura”.
La mostra è curata da Aldo Gerbino (professore ordinario in scienze mediche, critico d’arte e letterario, poeta) e Marco Marinacci (critico d’arte, ordinario di Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea).
Il catalogo della mostra di Marco Almaviva
Nel catalogo della mostra Carmelo Strano parla di “una visione dell’arte rigorosa e intransigente, una volta che (l’artista, NdR) ha cominciato a toccare con mano una sua forte irrinunciabile aspirazione, cioè trovare qualcosa da dire con una poetica e un linguaggio tutti suoi. E questo, evitando di farsi annoverare o incapsulare in esperienze consolidate, al livello o di fenomeni o di singoli artisti (…) Pittura senza supporto, anche se pur sempre oggettuale e non installativa o ambientale o atmosferica. Tessitura cromatica pura che avrebbe sicuramente strappato speciale ammirazione a Bruno Munari”.
“Marco Almaviva nel 2019, – scrive Marco Marinacci – con il ciclo di opere Rectoverso, sembra essere giunto all’origine di un’immagine che probabilmente è il proprio riflesso nella camera degli specchi della vita. Ha così districato il filo d’Arianna che compone queste opere dal titolo emblematico, e suggerito immediatamente la dualità della vita, i poli positivo e negativo dell’energia (la tavolozza è la medesima di “La città che sale” di Boccioni!) sembra poter ripercorrere un percorso auratico, che anziché uscire, ci porta nel suo labirinto interiore. Sembra che ci troviamo in un viaggio à rebours (qui, con lo sguardo del curatore, vale la pena di rendere parola “retrospettiva” il suo significato etimologico): incrociamo fili sospesi e riannodati che ci portano indietro nel tempo, passando per le opere “lineari” (2020), vero e proprio assito, come quei teli da mare in cannucciato su cui asciugare al sole le membra ancora bagnate (eco non così lontana il viaggio di Ulisse)”.
Aldo Gerbino e l’opera di Marco Almaviva
Aldo Gerbino approfondisce il rapporto tra le forme pittoriche e la biologia (in particolare, l’embriologia di cui è specialista), in un terreno border-line tra critica d’arte e scienza: “Vi è nella Filoplastica di Marco Almaviva una magmaticità polarizzata da impellenti ordini biologici, forse in accordo ad un’intima, mentale pellicola darwinista in cui l’aggressione sembra precedere la riformulazione di un caos presente negli arcaici contenuti vitali. Ed è attraverso i suoi dipinti degli inizi degli anni Settanta (l’Anelito ne traduce sùbito questo spirito) che la palmare tensione, lanciata verso una visione cellulare caparbiamente estesa su ogni primordiale aspetto del mondo organico si esprime, con ampiezza di particolari visivi, nella grande tela di Palpito primordiale, 1967)”. Non manca il saggista di parlare anche di “slanci emozionali” che assimila alla “idealità poetica di un Nicolas de Staël”. Parla anche di “forme fluenti”, richiamando la “Forma fluens” messa a fuoco da Ruggero Pierantoni nel 1986. Forme che “confluiscono nella totalità epicentrica dell’uomo oggi immerso nel suo degradato e dolente antropocene”.
Di conseguenza il critico scrive: “qui rileggiamo, con Marco, i suoi Flussi (1988) ed ecco che paiono legare, nel bagliore improvviso di un tragitto velocissimo, i graffiti paleolitici all’action painting di Jackson Pollock, per poi sbiadire sconfinare e far ritorno, negli Archetipi (1 e 2 del 2018/’19) carichi di ogni oggetto naturale indagato per essere riconsegnati ad un mondo tutto da ri-conoscere. Come le petrarchesche rime sparse dei ‘Fragmenta’, i segnali di Almaviva paiono rincorrere altre stringhe d’universo; ancor più lontano, ecco che la griglia di tale geografia astronomica s’infittisce tanto che i suoi Lineari (2020/’21) rendono la Filoplastica desertificata, ri-frantumata, imbrigliata e immessa in un reticolo ri-creativo, forse per comunicarci, in tale literal texture: l’inquietante ‘rischio’ del praticare, in arte come nella vita, la certezza”.
Marco Almaviva nasce a Novi Ligure nel 1934 (è figlio di Armando Vassallo, tra i più ragguardevoli scultori novecentisti liguri – Genova, 1892/1952 – protagonista nell’ambito del liberty e déco, due Biennali di Venezia – 1928 e 1930 – vicino al Secondo Futurismo, membro del gruppo avanguardistico Sintesi, ma ben presto messo ai margini dal fascismo).
Marco Almaviva, pur avendo una formazione tecnico-scientifica, alla fine degli anni Cinquanta matura i suoi interessi artistici. Sono gli anni in cui frequenta l’ambiente di Brera. Entra in contatto con Francesco Messina (primo allievo e amico di Armando Vassallo), frequentandone lo studio, anche perché interessato ai nuovi materiali che lo scultore siciliano privilegiava.
Nei primi anni Sessanta, a Milano, Almaviva entra in contatto con Peppino Ghiringhelli (galleria Il Milione), conosce Carlo Carrà, Dino Buzzati e gli ambienti avanguardistici, in particolare gli spazialisti. Alla metà di quel decennio conosce il critico Giorgio Kaisserlian, riferimento per l’opera di Fontana e lo Spazialismo. Ma si fa forte nell’artista l’esigenza di una ricerca linguistica e poetica autonoma con cui esprimere il suo rapporto con la natura nel modo in cui la sente, come forza, violenza e sopraffazione. E così, tra il 1966 e il 1967, mette a fuoco una ricerca che chiama Tonaltimbrica: affida al tono le masse pittoriche dello sfondo alle quali e al timbro il suo segno pungente. Inoltre, Almaviva interviene nella base tonale del dipinto con un colore puro e intenso che assume una funzione strutturante.
Esordisce nel 1967 a Milano, alla Rotonda della Besana, nell’ambito della rassegna «Il paesaggio nell’arte contemporanea», organizzata dal Centro-galleria Verritré (attivo da cinque anni). Vi espone “Palpito primordiale”, dipinto emblematico della sua sensibilità tonaltimbrica.
Nel 1969 si trasferisce a Genova, dove continua a dipingere. Lì fonda la Galleria Amaltea votata alla documentazione della propria attività. Inoltre, comincia a elaborare il concetto di Filoplastica.Esso segna il passaggio dall’immediatezza del dato naturale all’indagine in profondità della materia. In breve, attua una metamorfosi del segno tonaltimbrico che volge verso il filamento, sinuoso e sottile, che si fonde con la base cromatica. Lungo i Settanta tiene 35 mostre personali in varie città, improntate all’impianto filoplastico, oggetto di recensioni a cominciare dal settembre del 1971, nell’occasione della mostra al Centro Rosmini di Rovereto.
Nel 1979 si trasferisce a Borgo a Buggiano, in Toscana, dove prosegue l’attività di ricerca che nei primi anni Ottanta si concretizza in due fondamentali cicli pittorici, “Le forme dal mondo tolemaico” e “La materia dei Lembi”. Si tratta di enfatizzazione di quella materia cristallina e impalpabile che costituisce il tratto distintivo della Filoplastica. Di essa approfondisce i valori estetici ed estetologici connessi con la sua originale ricerca: un modo aggiuntivo per segnare la sua distanza dal rampante clima di «ritorno alla pittura» che scoppia agli inizi anni Ottanta.
Nel 2001 è stato costituito l’Archivio Almaviva. Nel 2016, a Genova, al Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce, si tiene l’iniziativa «La Filoplastica di Marco Almaviva/ Procedure, tecniche e contesti» (relatori Paolo Bensi, Claudio Paolocci e Sandro Ricaldone). Nel 2019 nasce la sua ultima ricerca che viene ufficialmente presentata nel capoluogo ligure, allo Spazio46 di Palazzo Ducale. L’incontro ti tiene all’insegna di «Focus on Canvas», con la partecipazione di Paolo Bensi e Sandro Ricaldone i quali presentano tre opere di Marco Almaviva basate su una pittura che precede la formazione del supporto. È una ricerca il cui seme risale al1965. Già allora, Almaviva concepisce, con Giorgio Kaisserlian, l’idea del dipinto da realizzare senza il presupposto di una superficie precostituita su cui stendere il colore. Non c’è dubbio che gli stimoli di fondo in questa direzione vengono da Lucio Fontana, anche se Almaviva non frequenterà mai i territori dello Spazialismo, pervicace, sempre, nel cercare una sua propria via. Ecco, così, nel 2019, in un terreno si direbbe di corsi e ricorsi storici, gli “Artefatti”, insistenti sulla serie chiamata “Lineari -Literal texture” (2020) e la serie chiamata “Rectoverso-Literal texture” (2021), entrambe precedute dagli “Archetipi” (2018-2019). Il sempre giovane Marco nel pieno di un’inedita avventura.
Nel 2022 le edizioni FYINpaper e Innerself, Milano-Adelaide, pubblicano la monografia Marco Almaviva, The Filoplastica and its Developments, curata da Gérard-Georges Lemaire e Carmelo Strano