Fuori dai denti/ Gustav Sjöberg, necessario non incoraggiare la poesia

Fuori dai denti/Gustav Sjöberg, necessario non incoraggiare la poesia
Federico De Leonardis Firmamento nero

L’editore Neri Pozza propone un libro di poetologia, una sorta di attuale De vulgari eloquentia: “La fiorente materia del tutto” di Gustav Sjöberg, tradotto dal tedesco da Monica Ferrando.

Una sorta di esperanto inadeguato a esprimere la complessità

Per sostenere una tesi veramente audace l’autore ha messo in piedi un coro di voci potentissimo, tale da far tremare la “cattedrale dell’arte” di Viktor Borisovič Sklovskij: in un mondo dominato da un esperanto inadeguato a esprimere la complessità e la ricchezza delle culture del pianeta, attraverso la rete alla portata immediata di tutti, ma strutturata esclusivamente a una comunicazione di potere, la domanda di quale sia il compito della poesia (in quale lingua, con quale materia verbale?) è centrale.

Il valore del pensiero occidentale

Sjöberg, poeta il cui idioma materno (lo svedese) è condiviso da uno sparuto sei milioni di individui, avanza una sua proposta sulla base di una conoscenza profonda del pensiero occidentale e soprattutto del grande contributo offerto da quello italiano. In campo filosofico e letterario spazia da Dante Alighieri fino a Giorgio Agamben, in quello visivo da Emilio Villa a Emilio Prini, e affronta la questione appoggiandosi alla sponda di studiosi del calibro di Gianni Carchia e Enzo Melandri. Partendo da Dante e Tommaso Campanella, la sua analisi poetologica prende le distanze – come aveva fatto Giordano Bruno – dal petrarchismo storico e, per rimanere nell’attualità, dalla ”pappa omogeneizzata che si può modellare e tenere in forma nel modo più utile” (Furio Jesi): la cultura di destra.

Una molteplicità di forme che genera se stessa

Una qualsiasi sintesi di questo librino densissimo è un azzardo. Comunque, il suo obiettivo mi è sembrato quello di risuscitare un concetto di natura impostato dal grande nolano bruciato vivo appunto dal potere di allora: “non più subtrato passivo su cui si debba intervenire con un lavoro formale, bensì al contrario una molteplicità di forme che genera se stessa e con cui combacerebbe” (dall’introduzione della traduttrice). La questione è veramente complessa e rischia l’astrattezza nel mondo attuale, in cui tutto (l’arte e la poesia in testa) è “destinato a edificare edifici funebri alle individualità che meglio si sono espresse” perché “…non è entrato nel corteo loquace della storia”.

Opportuno forse puntare al vuoto assoluto

Personalmente, non essendo come lui “caduto sulla via di Nola”, mi limito a domandare: non è forse il vuoto assoluto che occorre perseguire, il vuoto per eccellenza, dal campo visivo che ha invaso di immagini il pianeta, alla verbosità dilagante? Ma il vuoto ha sempre un corpo, è ancora materia. E quale è la materia del vuoto in poesia? La morte in poesia si esorcizza con la perdita del controllo su di sé e questo forse è proprio un altro modo di esprimere l’abbandono alla fiorente materia del tutto.

Nella società di mercato sarà forse opportuno cessare di scrivere poesia

È senz’altro merito di Sjöberg l’aver sottolineato con autorità e competenza l’importanza, a questo proposito, del pensiero di Giordano Bruno. Fa piacere comunque che esistano persone che avanzano una coraggiosa proposta all’ipotesi che, per sottrarsi alla fagocitazione della cultura dilagante “nella società di mercato, sia necessario cessare di scrivere poesia”.

Dello stesso autore: Fuori dai denti/ Il baricentro di Venezia