Quando guardo un’opera d’arte visiva, che sia antica o attuale, soffoco in me qualsiasi nozione letteraria, filosofica e logica possa mai affiorare nel mio cervello, guardo e basta con la verginità di un bambino (malgrado i miei occhi siano quelli invecchiati da ormai tantissimi sguardi). In primo piano sono i miei sensi: gusto, olfatto e spesso anche udito mi servono a poco, a meno che l’ambiente in cui è situata l’opera non sia affollato di scolaresche vocianti o non affacci sugli esercizi pianistici di Pollini, a meno che non debba subire il fortore di qualcuno o essere avvolto dal profumo di una bella donna: ci sono queste interferenze! Cerco di entrarci dentro con gli organi a cui l’opera ha affidato il messaggio che vuole trasmettermi, l’occhio e il tatto; per alcune col primo devo usare il terzo, l’orecchio, come succede per il cinema o il video.
Tutto questo per dire in sostanza che cerco di tenere a debita distanza il cervello: non voglio saper niente di niente, né dell’autore né dell’opera, nessun precedente deve influenzarmi, nessuna nozione, didascalia, data. Perfino la firma, se apposta, non mi interessa. Ripeto, guardo e basta. L’opera ed io siamo finalmente di fronte, in un presente assoluto, senza passato, senza intermediari di sorta, senza interferenze, nel silenzio di quello sguardo per il quale essa è stata creata.
Ho detto silenzio, perché penso che più a lungo esso sussista, più l’opera vale. A volte non si interrompe mai, finisce nel fondo della mia anima e ci rimane per sempre. Per esempio lo sguardo di un ultimo autoritratto di Rembrandt, l’attimo in cui la young lady standing at a virginal intercetta Vermeer che osserva il putto dietro di lei, per esempio il senso di vuoto provato dentro il Cupolone di Brunelleschi, quello di vertigine sotto l’ovale del S. Carlino, per esempio la voglia di infilare le mani dentro il grasso della seggiola di Beuys o la nostalgia condivisa con Gordon che nella galleria Lambert scava un buco alla ricerca del fratello suicida, per esempio… Potrei continuare per un intero volume.
Di quest’affondamento non mi chiedo né perché né percome: semplicemente lo constato, semplicemente assaporo il meraviglioso vuoto di tutte le mie facoltà e soprattutto lo stop del chiacchiericcio insulso che ingombra il mio cervello di intellettuale stracorazzato. Sono al mondo ancora una volta, in quel mondo che condivido con qualsiasi animale o vegetale mi circondi, lo stesso che provo in un coito in cui cerco l’altro nella sua straordinaria unità. E lo conosco (biblico: “egli la conobbe”).
Io ho il senso del tradimento: la parola, la mia parola prima di tutto ma anche quella degli altri, mi ha tradito, cerca di tradirmi continuamente. Qui non faccio dell’arte, lo dico in parole e purtroppo il mezzo è il messaggio: sento tradita tutta l’arte autentica, quella che mi fa stare al mondo. Non è importante che tradiscano me, quanto l’arte, l’arte vi-si-va.
Da chi, da quando? La risposta non è senza importanza.