Con il minor numero di parole possibile mi sforzerò di andare all’osso della questione del cambiamento epocale che ha determinato il digitale anche in Arte (parlo della visiva, naturalmente).
Arte digitale, il predominio del dato
É presto detto: quando l’in-formazione sostituisce la formazione, quando cioè tutto si riduce a notizia, dato, data (la parola inglese up to date la dice lunga), nozione, erudizione, anche chi sceglie di comunicare attraverso immagini visive è spinto a seguire il piffero del digitale. Ma non scambiamo la causa con l’effetto: il digitale, la tecnologia, è l’effetto, non la causa: questa sono la globalizzazione del pensiero, l’appiattimento della lingua a un esperanto non in grado di generare uno Shakespeare 2, la morte voluta a tavolino dalla società calda di quella incredibile varietà di culture in declino già all’epoca di Levi-Strauss (per non parlare del “nostalgico” Pasolini). Volete che prosegua? Che vi parli della Dialettica dell’illuminismo? Della denuncia pronunciata da Agamben su Gusto?
Arte digitale, troppo spazio alla “gente”
Se non sbaglio l’Arte dovrebbe essere una punta di diamante, “l’ascia per spaccare il mare di ghiaccio dentro di noi” (Kafka), mentre il digitale è facile, alla portata di tutti e immediato, tre qualità che battono qualsiasi concorrenza. Non ce l’ho con la casalinga di Voghera e tantomeno con la velocità della comunicazione, ma quando si sceglie la facilità, le cose si complicano: morire non è facile e dare una speranza al dolore distribuito quotidianamente a tutti, grandi e piccini, giovani e vecchi, re e schiavi, è concesso a pochi. Ricordiamoci che “per un poeta il dolore è sempre un colore” (Brodkij?): Mel Ferrer, deciso a suicidarsi, apre i rubinetti del gas di illuminazione (interpretava Toulouse-Lautrec) e si accorge che un quadro rimasto sul cavalletto non è finito; dimenticando la sua angoscia incomincia a lavorarlo: il puzzo lo avverte che deve chiuderli e lui lo fa continuando a guardare la sua tela.
Arte digitale, la corporeità vs lo schermo piatto
Sono al mondo, quelli che presumono di poter dare poesia, perché almeno una volta la poesia ha dato loro consolazione. Se mio figlio è lontano e da dieci anni non si fa vivo, non mi basta vederlo su skype o sentirlo con whatsapp, devo toccarlo, sentirne l’odore, misurargli le rughe: il digitale è l’ultimo degli inganni inventati dalla tecnologia, il corpo non passa attraverso uno schermo piatto, Alice attraversa gli specchi solo con la poesia di Lewis Carroll: l’Arte non si accontenta di una luce diretta, ha bisogno di spazio, di vicinanza reale, atmosferica. In una parola, di corpo.
Come si fa un bambino? Palazzeschi ce l’aveva con chi ce l’aveva con la pornografia: “ma se insegna come si fanno i bambini!” (riassumo il suo candore, la sua serenità, la sua mancanza d’ipocrisia). E come si fa un bambino (che diventerà un uomo, un Leonardo – si spera – o almeno un De Leonardis)? Devo scendere nei particolari di quell’organo preposto alla bisogna (che per essere in tema, non ha osso)? Devo ricordare che è uno dei sensi, anzi forse il senso principe tout court?
Ma soprattutto, che non attraversa nessuno schermo?
Dello stesso autore: Fuori dai denti/La mano e l’Ucraina