Alessio Della Valle e il pulp-noir “American Night”

Alessio Della Valle e il pulp-noir

L’opera prima di Alessio Della Valle, “American Night”

“American Night” (2022) è il film opera prima (visibile su Chili, Amazon Prime, Sky Cinema, tutte le piattaforme e disponibile in DVD) sceneggiato e diretto da Alessio Della Valle (Firenze, 1978). Laureato in cinema al DAMS di Bologna, quindi diplomato in regia teatrale al Samuel Beckett Center del Trinity College di Dublino e con un master in “Film Directing” alla Los Angeles Film School, Della Valle ha lavorato come regista alla Fox, MTV, Rai, Disney e ha diretto numerosi spot pubblicitari.

Pulp e noir con un cast d’eccellenza

Il film, prodotto da Martha Capello e Ilaria Dello Iacono, è un quasi unicum nel panorama degli autori italiani, è un film che affronta il genere, quello del noir e del pulp, generi spesso americani, e difatti il film è ambientato in America e in Inglese, con un cast di rilievo,  che include un bravissimo Jonathan Rhys Mayers, nel ruolo del protagonista falsario di opere d’arte, Emile Hirsch (8 nomination per “Into the Wild” di Sean Penn) in quello dell’antagonista, un mafioso italoamericano a cui tocca prendere l’eredità del padre/padrino (Marco Leonardi) e far fronte ad una mafia che non ne vuole saperne di un boss con ambizioni artistiche, quali egli ha, Paz Vega, Michael Madsen (attore culto che tutti ricordiamo ne “Le iene” di Tarantino dove interpretava Mr Blonde), Fortunato Cerlino (già Don Pietro Savastano nella serie Sky “Gomorra”) con un’interpretazione ironica molto riuscita, una Maria Grazia Cucinotta nel ruolo della mamma e moglie mafiosa che riesce abilmente a fare di sé un cameo, Jeremy Piven (noto per la serie “Entourage” della HBO) nel ruolo del fratellastro del protagonista e la cantante Anastacia che per l’occasione ha cantato e composto una canzone ad hoc per il film dal titolo “American Night”, per evocare il concetto del doppio della pop art, lei stessa essendo un’icona pop, che canta un brano con lo stesso titolo del film.

Un cast appunto d’eccellenza, a cui hanno aderito tutti gli attori in virtù di quello che negli Stati Uniti si chiama un “passion project”, un progetto cioè che attira grandi artisti  per pura passione.

Un film ambizioso con il montaggio di Zach Staenberg (“Matrix”), co-produttore, che riesce a costruire una struttura di rimandi e scatole cinesi trasformando un thriller in un istrionico gioco di tempi orizzontali formato fumetto. Abbiamo incontrato il regista Alessio Della Valle a Roma per un’intervista.

Alessio Della Valle, l’intervista

Angela Maria Piga: Sono rari i registi italiani che hanno ambientato una storia all’estero, con protagonisti non Italiani. Come mai una scelta così fuori dal coro?

Alessio Della Valle: Probabilmente perché ho vissuto in tanti paesi. Fra questi l’America, quando vinsi una borsa Fulbright. In un certo senso credo che l’America sia una metafora del mondo. Nelle grandi città come Los Angeles o New York ci sono persone da tutto il mondo e volevo una storia universale, ambientata nel mondo dell’arte, che fosse di intrattenimento ma che avesse una serie di livelli di lettura. E una storia che parla a tutto il mondo se girata in Italiano avrebbe precluso molti spettatori  in termini di distribuzione. Ho scelto New York per raccontare una storia transnazionale, difatti ci sono personaggi americani, italiani e asiatici. Inoltre, in un certo senso siamo tutti figli della cultura anglosassone, dai Beatles a Pollock a Kerouac, siamo tutti cresciuti con la cultura popolare americana.

AMP: Tutti no, ma l’intervistato sei tu!

ADV: Da piccolo sono cresciuto con la cultura dell’intrattenimento anglosassone ma anche asiatica che amo molto, guardavo i film di Ninja (inseriti nel film), leggevo i Manga, e così via.

AMP: Nonostante tu abbia ambientato la storia a New York, la New York che descrivi sembra più una scenografia di New York, quasi una Gotham City, una quinta teatrale.

ADV: In effetti abbiamo pensato molto a Gotham City. Sono partito dal ragionamento teorico (che il pubblico non deve riconoscere) chiedendomi cosa sia una icona. A 18 anni feci un corso di pittura di icone antichizzate, in stile russo, su legno, con fogli d’oro, con ad esempio il tipico San Giorgio che uccide il drago, tutto era in due dimensioni. Riflettendo, ho capito che l’icona (inclusa la Marilyn di Warhol del film) è legata al concetto del doppio. Schifano dipingeva un logo duplicandolo, quindi il risultato era una doppia icona: un brand che diventa ancora una volta icona in mano all’artista, una icona di un’icona, un doppio appunto. Ho trattato New York allo stesso modo, cercando più che New York così com’è la New York che è nella mente di tutti, e che diventa perciò un’altra cosa, da Gotham City a Blade Runner. E questa operazione la abbiamo fatta in tutto, anche nelle musiche, ad esempio il compositore Marco Beltrami ha preso l’Ave Maria di Schubert e non ne ha fatto una cover, ne ha creato qualcosa di altro.

AMP: E hai realizzato una storia alla stregua di un fumetto riconoscibile e noto nell’immaginario collettivo.

ADV: Esatto. Quindi ho cercato di fare qualcosa di pulp, di sopra le righe, credibile ma al limite dell’incredibile.

AMP: Perché il titolo?

ADV: Anche qui ho pensato al doppio, American Night è un titolo ma è anche una espressione del protagonista quando è disteso di notte sotto un cielo stellato, e il nome del locale dove si svolge parte della storia: più livelli di significato, è il leitmotif del film.

AMP: Perché l’arte come paradigma della vicenda?

ADV: Da diciassettenne feci volontariato alla Misericordia a Firenze, venni mandato ad aiutare il pittore Guarnieri che stava affrescando una chiesetta dell’arch. Michelucci. Mi sono trovato sulle impalcature a trenta metri di altezza, passando giorni interi ad inchiodare la sinopia della Madonna al muro, passando il carbone sui fori in modo che vi rimanesse, dando l’impasto, ecc., un’esperienza che mi è rimasta dentro. L’arte per me ha avuto un inizio fisico, profondo.

AMP: Tanto da diventare protagonista.

ADV: Sì, ma il motivo reale sono stati i personaggi. Sono partito dal Noir; il protagonista è l’antieroe, poi c’è la moglie buona, la femme fatale e l’innocente, icone insomma. Il motivo ad esempio per cui in  Blade Runner (che, in termini di personaggi, ritengo un Noir più che un film di fantascienza), Clint Eastwood nei film di Sergio Sergio Leone, o Batman  non si cambiano mai gli abiti è perché sono icone, per questo anche nel mio film i personaggi non cambiano mai costume, perché sono icone. Sul perché della scelta del mondo dell’arte, poiché nei Noir nessuno è o del tutto buono o del tutto cattivo, dovevo inventare una trama che innescasse queste doppie valenze dei protagonisti, e l’arte ha fatto al caso nostro. La Marilyn rosa, perno del film, e duplicata più volte dal protagonista, è un’opera doppia, per altro una serigrafia, che sintetizza tutto questo.

AMP: La struttura temporale a scatola cinese, cioè con scene iniziali che sono il quasi finale, e viceversa, o scene medesime che si ripetono ma con esiti diversi per cui il pubblico compone a ritroso la storia, perché l’hai scelta? In altre parole, perché non hai scelto il racconto cronologicamente lineare?

ADV: La teoria di tutti i libri di sceneggiatura dice che ci sono delle regole, regole che ho deciso di non seguire. Le regole sono: ogni film è il viaggio di un eroe che deve arrivare a fare un percorso che alla fine lo cambierà. Io penso che nessuno nella vita cambi a meno che coscientemente non voglia fortemente farlo. Sono partito quindi dalla realtà, pur in un contesto non realistico. Seconda regola: quando presenti il tuo personaggio devi spiegare chi è, cosa vuole, ecc. per affezionarlo al pubblico. Anche qui dissento: quando si incontra una persona in realtà tu non sai cosa ha fatto prima e quando se ne va non saprai cosa farà, le spiegazioni non ti vengono date. Volevo trasferire questo nel film.

AMP: Però se i personaggi non cambiano l’esito delle vicende cambia le loro prospettive.

ADV: Sì perché ho deciso di usare un’altra regola, mia personale, e cioè che alla fine del film i personaggi anziché cambiare accettano di essere se stessi, si accettano, accettano la propria natura, come la storia della rana e dello scorpione che è appunto nel film. E il personaggio di Michael ha tatuato uno scorpione perché alla fine accetterà la sua propria natura. Volevo rappresentare non la realtà, ma un suo meccanismo. E un’altra regola ancora: nel film si salva chi si pente.

AMP: Il prossimo film avrà lo stesso taglio e la stessa struttura?

ADV: No, non credo.

AMP: Quindi non si tratta di un tuo stile.

ADV: A proposito del detto che ogni regista fa lo stesso film per tutta la vita, ebbene a me piacciono invece quei registi che cambiano ogni volta, come Kubrick ad esempio.

AMP: Benché un autore è tale proprio quando riconosci il suo mondo e il suo immaginario.

Alessio Della Valle e il pulp-noir "American Night"
Henri Wallis, The Death of Chatterton, 1956, olio su tela

ADV: Questo non lo so, ma di sicuro posso dire che la mia formazione, oltre al bagaglio anglosassone, e non solo americano, penso ad esempio a Samuel Beckett, parte di certo da Antonioni (ancora ricordo come rimasi stupefatto dal suo primo film, “Il grido”) e dal mio rapporto con l’arte. Ho passato anni a fotografare opere d’arte di artisti contemporanei o antichi, noti o sconosciuti, e molte di queste sono finite nel film o hanno ispirato alcune scene, come nel caso del dipinto “Chatterton” del 1856. E’ stata una ricerca capillare (senza avere il nome dell’artista ma solo la fotografia dell’opera), ma era un’opportunità per evocare alcuni quadri che mi hanno ispirato. Così come la scelta dei soli tre colori primari ricorrenti in tutto il film, giallo blu e rosso.

AMP: Funzionali anche questi alla storia?

ADV: Sai perché Pasolini girò “Edipo Re” in Marocco? Per i colori. Perché voleva solo il blu del cielo e l’ocra della terra. Io ho dato direttive ferree: solo i colori primari, a meno che non che non stesse per succedere qualcosa ai personaggi, allora arrivava il verde.

AMP: Di nuovo l’arte, a gamba tesa.

ADV: Quando mi chiesero di fare due documentari, uno agli Uffizi e uno alla Galleria Borghese, rimasi settimane da solo a Musei chiusi circondato dai capolavori della storia dell’arte, da Michelangelo a Caravaggio e così via. E, vivendoci quotidianamente, mi sono reso conto di una cosa. L’arte non rappresenta tanto, o solo, la storia dell’umanità ma è concretamente tutto ciò che ci rimane di tutte le persone che sono vissute prima di noi. Architettura, libri, musica, è tutto ciò che ci rimane di chi ci ha preceduto.

 

Alessio Della Valle e il pulp-noir "American Night"
Emile Hirsch and Jonathan Rhys Meyers
Qui una clip del film.

Della stessa autrice: “Don’t Look Up”,  fare i conti con la propria decadenza