Madre genetica di tutte è sicuramente l’influenza spagnola, propagatasi tra il 1917 e il 1920 in concomitanza con la prima guerra mondiale e che provocò più vittime dello stesso conflitto. Considerata tra i grandi disastri dell’umanità, la peste ha scatenato terrore per la sua rapida espansione in tutto il mondo e per le sue conseguenze. Eppure il tema delle malattie virali è molto più antico. L’archeologia ne ha trovato tracce fin dall’età della pietra, la Bibbia narra della pestilenza, mandata da Dio come castigo e del sacrificio di Davide nel Libro di Samuele, Pericle fu vittima della peste di Atene (successivamente identificata dai ricercatori come una febbre epidemica tifoide).
Una delle epidemie più devastanti del mondo antico fu quella che scoppiò nell’impero bizantino tra il 541 e il 542. La peste prese il nome dall’imperatore Giustiniano e mise in ginocchio vaste regioni. Il crollo demografico che ne seguì comportò anche gravi problemi economici. L’impero bizantino trascorse un secolo circa di pestilenze (tema su cui scrisse molto Gallieno) che lo colpirono pesantemente. Secondo gli storici il ritorno violento del terribile batterio in Occidente si verificò nel 1347, quando dei genovesi, in fuga dalla loro colonia di Caffa sul Mar Nero, portarono a Marsiglia il contagio. Fu l’inizio della peste nera e di una violenta crisi dell’Europa.
Ne subirono le conseguenze anche le comunità degli ebrei che vivevano nella zona del Reno (da Strasburgo a Mainz o Worms), accusati di avvelenare i pozzi e di essere dunque la causa della peste. Perseguitati, massacrati divennero il capro espiatorio della Grande Morte, e il popolo Aschenazita si trovò costretto a emigrare a est verso la Russia. In quell’occasione San Rocco divenne il protettore dei malati e rappresentò l’ultimo rifugio di una umanità decimata.
Anche la cultura fu notevolmente influenzata. Giovanni Boccaccio utilizzò Firenze e gli anni in cui imperversava il flagello come cornice del suo Decamerone. E se nel libro i giovani fiorentini decidono volontariamente di rifugiarsi in campagna per dieci giorni, a Ragusa l’isolamento è obbligatorio. Il 27 luglio 1377 viene praticata per la prima volta la quarantena nell’attuale città dalmata di Dubrovnik. Il provvedimento viene ripreso successivamente da Venezia, dove è creato un lazzaretto su una piccola isola contigua alla città, in cui merci e persone provenienti da paesi di possibile contagio dovevano trascorrere un soggiorno normalmente di quaranta giorni. La Catalogna seguirà l’esempio alla fine del ‘400.
Tuttavia questi provvedimenti non sono stati sufficienti per porre una fine alle epidemie di peste che torneranno nel corso del Seicento. In questo secolo, però, osserviamo un andamento diverso del contagio, dalla presenza semi-endemica dell’età precedente, con episodi ravvicinati, si passa ad una serie più breve di scoppi, culminanti nelle due epidemie del 1630 e del 1656. La Francia di Luigi XIII e Venezia hanno affrontato la prima, Napoli e gran parte d’Europa la seconda. Ne fu vittima nel 1665 Londra, che Daniel Defoe descrisse nel 1722 nel suo libro A Journal of the Plague Year.
L’ultima epidemia su larga scala nel continente europeo si ebbe nel 1720 a Marsiglia dove persero la vita più di 200.000 persone. La figura di San Rocco nel corso degli anni è diventata sempre più popolare, tanto da ispirare diversi artisti in dipinti e sculture. Lo stesso Tintoretto lo raffigura la prima volta nel 1549 nel meraviglioso dipinto San Rocco risana gli appestati, nella chiesa di San Rocco a Venezia.
Ma fu il memento mori a far nascere un nuovo tema iconografico, con danze macabre e incontri vivi – morti. Famoso il dipinto Trionfo della morte, conservato nel Palazzo Abatellis a Palermo. L’affresco del Quattrocento, di cui non si conosce l’autore, è composto come una gigantesca pagina miniata, dove la Morte irrompe su un cavallo scheletrico lanciando frecce letali e seminando disperazione e panico tra la gente. La Chiesa di Lubecca, in Germania, invece ospita la danza macabra più imponente in questo particolare genere, comprendendo 24 figure in un paesaggio bucolico e raffigurando nei cadaveri alternando le diverse classi sociali dell’epoca. L’immagine macabra, ma necessaria, è sottolineata anche dai medici con il loro abito lungo nero in tela cerata e una maschera con un pronunciatissimo becco, all’interno del quale venivano inseriti fiori secchi, lavanda, timo, mirra aglio e tanti altri elementi i quali avrebbero dovuto ridurre al minimo il contagio determinato dalla respirazione dei “miasmi”.
Nel Seicento i dipinti furono innumerevoli. La peste di Azoth, di Nicolas Poussin ispirata a un passo della Bibbia; L’albero della vita, di Ignazio de Ries nella Cattedrale di Segovia in Spagna, con la rappresentazione di Cristo che ricorda ai peccatori il castigo della morte; Alegoría de la Peste, di Pedro Atanasio Bocanegra, ci presenta come protagonista una donna morta, distesa a terra con i figli accanto; La Peste di David, di Sébastien Bourdon. La cupa tematica viene riproposta ancora in seguito. Citiamo altri due grandi nomi come Jacques-Louis David nel 1780 e Antoine-Jean Gros nel 1804, per poi estinguersi quasi totalmente.
La peste del passato ha dato un contributo notevole all’iconografia occidentale, lasciando segni e influenzando il modo di vivere e di pensare. Ma la paura che si evince nei quadri del passato del Medioevo e del Secolo d’Oro, forse non è così diversa da quella che stiamo vivendo con l’attuale pandemia, con le sue conseguenze economiche e morali.