L’inedito/la vera storia di Gennaro

Racconto inedito sulla vita della pop star Gennaro
Annalisa Agostinacchio

Anche oggi qualcuno mi ha chiesto di raccontare la vera storia della mia vita. E per essere sincero, ho deciso di liberarmi del peso che mi trascino da anni. A partire dal mio nome, Genny. Non posso lasciare senza risposta le volgari insinuazioni della gente che va nella tabaccheria di mia moglie con la solita domanda Anna come mai tuo marito si trucca ancora gli occhi se non fa uno spettacolo da più di vent’anni? 

E Anna sembra infischiarsene. Prima di andare a lavorare mi guarda con amore e mi coccola con mille cure.

“Genny, ricordati di mettere la crema antibiotica sin dietro le orecchie.”

“Me lo ricordo, grazie.” Rispondo scocciato. “Ma mi fa piacere che tu me lo dica.” 

“Da quando ti sei fatto il lifting, le clienti mi fanno ancora più domande su di te.”

“E non hanno notato che i capelli sono tinti di bianco perlato, più lunghi e raccolti in una coda da cavallo che arriva sin dietro la schiena?”

“Hanno fatto più effetto il bomber, i jeans firmati e le Adidas.”

Fino ad ora, chi fossi, da dove venissi e cosa facessi non avevano importanza. Almeno per me. Quasi ogni giorno esco senza meta, vado dove mi portano le gambe. Milano è un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine. Milano, la moda, il design, l’architettura, il nessun dorma, la parola figo. Mi hanno rotto le palle. Assieme a tante altre cose. Solo Anna è sempre la mia Anna come trentacinque anni fa.

Sono in un loop di pensieri, sempre gli stessi. Sulle mie origini, sui miei genitori. Su quel che ho fatto. Il pensiero si ferma allo stesso punto e poi… il buio. E in modo sistematico riparte dalla mia nascita. Per molto tempo, più di quello che ci è voluto per impararne a ridere, quando mi chiedevano dove fossi nato, io rispondevo a letto. I miei genitori mi avevano indicato quello grande nella loro camera, spiegandomi che ero nato lì. Negli anni cinquanta si nasceva a casa. E quel letto è stato portato da Napoli dal quartiere Fuorigrotta a Milano da Gennaro, il padre di mio padre. Emigrarono subito dopo la prima guerra mondiale. 

Il pensiero torna ai miei genitori. Al lavoro di mio padre, operaio specializzato che si occupava di strumenti di precisione: bilance. Poi a mia madre miniatrice. Era una specie di antesignana del Photoshop. Ritoccava le fotografie per alcuni laboratori milanesi. Foto che io stesso -molto piccolo – andavo a prendere e poi riconsegnavo. Mi sono sviluppato con l’illusione, l’artifizio e, così, ho iniziato a truccarmi. Giovanissimo amavo travestirmi ed esibirmi in piccoli locali milanesi. Non mi chiamavo più Gennaro. Avevo creato una band, Genny e gli HydeShow. 

Dopo pochi mesi si era aggiunto Abel, brianzolo di origini lodigiane, da famiglia sfollata negli anni della guerra.  Erano i primi anni Settanta.

Ero un imprenditore nato. Bravissimo a scritturare concerti. 

Il ricordo di un biglietto del concerto sul prato e del sangue mi impedisce di andare oltre la tragedia. Era il 1989. Salto di palo in frasca. Allora ripenso ai meravigliosi anni settanta quando eravamo tutti giovani e pazzi. Da molti anni ho scelto un esilio volontario. Sono depresso e ansioso, annoiato, schiavo della chirurgia plastica, e non credo più nel potere taumaturgico del Rock. Mi commisero perché sono stato una pop star diventato ricco facendo canzoni di successo ma tristi, tanto tristi. Preludio di una disgrazia. 

Non c’è neanche un’insegna, una targa che ricordi la tragedia. Quella sera si doveva far festa e invece due ragazzi sono morti a causa del crollo di una parte del palco aggravato dal peso e la pressione della folla in fuga. Succedeva al mio concerto. L’ultimo.

                                                                           ***

 “Sai chi è venuto oggi a cercarti?”

“Anna, non ne ho idea. Fai prima a dirmelo.”

“Abel. Mi ha detto che vuole parlarti di una cosa molto interessante.”

“Lui fa il figo con te solo perché hai il Bar Tabaccheria più frequentato di Milano…”

“Ma che dici Genny, tu sei ancora un’icona del Rock.”

“Un sacco di gente non la pensa così.”

“Parlagli ti prego.”

                                                                              ***

“Come possono le parole non dette o le intonazioni ambigue provocare malintesi e guastare definitivamente l’amicizia di due vecchi amici?” dico ad Abel mostrandomi felice di rivederlo.

“Sei proprio un fregnone.”

 “Forse perché eri troppo divorato dal senso di colpa.”

“Dopo tutti questi anni, sono convinto che sei stato tu a tradire me, non io te.”

 “Dovevi venire al processo.”

“E ora scoperchiamo le tombe?”

“Sei incorreggibile.”

“Io?”

“Ma crepa. Sai cosa sto facendo? Un video per una produzione e potrebbe venire una cosa molto interessante. Manca la tua regia. Manchi tu sul palco.”

“Guarda questa lettera, non sei l’unico a farmi delle proposte allettanti.” Porgo ad Abel la lettera di risposta alla proposta di produrre un album.

È con vivo rincrescimento che mi trovo costretto a declinare la vostra proposta, una delle più allettanti che mi siano avanzate da anni. Non mi sembra giusto alimentare false speranze. 

“Non me ne frega niente di quella lettera. Cosa fai? Ti metti a limare le unghie?”

“Le ho mangiate fino a un mese fa e ora ho deciso di crescerle.”

E dopo la disgrazia non avevo voluto leggere né sapere niente degli atti del processo. Mi aspettavo che lui si occupasse della questione giudiziaria. Ma non lo fece.  E ora mi lanciava una sfida o meglio mi voleva aiutare. Ma io non ce la facevo. Sentivo di avere un’anomalia che mi bloccava.

Approfittai di una pausa della pioggia, feci la spesa e rientrai nel mio appartamento. Anna non tornava mai per pranzo, era orario di punta per i milanesi e rimaneva in Tabaccheria. Avevo cominciato a prepararmi un’insalata quando il cellulare squillò.

Sì sono Genny. Sì certo. Flamigni. Non potevo dimenticare quel nome. Lei era Melania, sorella dei ragazzi morti. No, non mi seccava che si fosse procurata il numero del mio cellulare. Se conoscevo il locale The Back Pages? Certo come il brano di Bob Dylan. Se volevo andarci nel pomeriggio per parlare con lei di un progetto molto importante. Va bene allora siamo d’accordo.

Mi sentivo strano. Per un attimo ebbi l’impulso di richiamare e dire di no, purtroppo avevo un altro impegno. Scusami mi era sfuggito, magari un’altra volta. Poi mi dissi ad alta voce Amico stai diventando matto. Vai a quel cazzo di appuntamento e falla finita con le tue seghe mentali.

Arrivai in anticipo. Il locale era un vecchio capannone industriale, ristrutturato alla moda. Il classico posto milanese di tendenza. Arrivò Melania, dark look in contrasto con la luminosità del suo volto. Parlava con tutti e conosceva tutti. Intanto il ricordo di quella sera si faceva più intenso non solo per gli odori e i rumori. Birra, sigarette, canne, sudori. Per un attimo ebbi un pensiero assurdo… che da un momento all’altro tutto sarebbe crollato. Melania chiamò il cameriere che mi lanciò un’occhiataccia. Mi sentivo un grandone che esce con le ragazzine.

I suoi occhi azzurri mi davano sensazioni positive. Lei era la luce in fondo al mio tunnel.

Il mio cervello cercava freneticamente scuse per scappare. Lei andò dritta al punto.

“La morte dei miei fratelli al concerto mi ha cambiato profondamente. Ho capito che il dolore è universale. Come la musica. C’è stata guarigione per me attraverso un rituale.”

La ascoltavo non capivo dove volesse arrivare.

“Sono ripartita da dove tutto è finito: dal concerto. Se ha fatto guarire me può guarire anche te. E tu puoi far guarire il pubblico con la tua musica.”

Mi venne in mente il sociologo Émile Durkheim. E il fenomeno delle Efflorescenze Collettive grazie al quale una comunità può unirsi e comunicare collettivamente lo stesso pensiero allo scopo di unire il gruppo. Immagino di fare la stessa cosa nei concerti. 

Decisi di accettare il progetto. Mi tagliai i capelli, non mi truccai più. 

Chiamai Abel. Ripartivamo insieme ancora una volta con il tour Dall’Inferno all’Infinito. Da Bristol a Lisbona. Un viaggio visionario ricco di melodie e armonie collettive.

Non mi chiamo Genny. Il mio nome è Gennaro. 

 

 

Annalisa Agostinacchio è avvocato amministrativista cassazionista e consulente per privati ed enti pubblici nella sua materia. Socio fondatore dell’Associazione Eurolabor per la diffusione della cultura della progettazione finanziaria europea tra le imprese e i professionisti e per l’accesso al finanziamento diretto UE. Appassionata di letteratura, è ora autore esordiente.