A Casa Malaparte a Capri protesa sul faraglione e scogliera, la più scenica dell’intero Mediterraneo, viene esposto l’ultimo ciclo di opere di John Currin.
Tra gli scarni arredi rimasti nella villa nata dalla collaborazione tra Curzio Malaparte e l’architetto Adalberto Libera, che mai ha riconosciuto il suo contributo, viene esposto un ciclo di opere attorno a un doppio ritratto femminile monumentale a grandezza naturale: “Passage”. Currin ha sempre fatto la pittura senza motivarla o offrirla a finalità altre.
Nelle sale di Villa Malaparte si susseguono dipinti frutto di incursioni in ciò che l’arte contemporanea ritiene completamente trascurabile come la sofisticata rappresentazione di pezzi porcellana in stile settecentesco. Currin li dipinge quasi casualmente sulla tela. Competono in aperta polemica con l’intollerante infinita esibizione di oggetti della Pop Art e del Modernismo, e ci obbligano a interrogarci perché questi ultimi ci siano piaciuti così tanto. Perché non ne abbiamo potuto fare a meno?
Le animose sentenze di Barbara Kruger stilizzate in forma di suprematismo russo ma anche del logo Supreme (ora comprato da Luxottica) oppure le idolatrate collezioni di Design del MOMA finiscono su un terreno scivoloso. Da un lato, Currin e le sue rappresentazioni di desueti oggetti, titolati” Aunt Betty”, ”Living Room” Dining Room”; dall’altro, le nostre classifiche di apprezzamento definite da temporanee posizioni morali che non tollerano le deviazioni dallo stile contemporaneo, dalla forma contemporanea che accettiamo in modo assoluto. Lo stesso dicasi per i ritratti femminili, un nudo soprattutto che vìola in ogni possibile modo i canoni di rappresentazione del corpo femminile sia nei media contemporanei che in quelli del Modernismo. Questa mostra di Currin è anche una segnalazione importante delle antropologie economiche contemporanee.
Dal punto di vista della cronaca mondana Capri è una tappa all’interno del circuito estivo che permette ai trionfatori dell’economia contemporanea, in termini di capitalizzazione societaria, un’esibizione smodata di ciò che posseggono, imbarcazioni da diporto, velieri. Un racconto del successo raggiunto. I
l pentagono d’oro definito da Ibiza, Monaco, Costa Smeralda, Capri, Eolie è la rotta più frequentata da imprenditori e finanzieri contemporanei che grazie alle capitalizzazioni finanziarie possono issare la bandiera di un successo pari solo a quello dei capitalisti dei Ruggenti Anni Venti. La sola epoca pari alla nostra in quanto ad abissale differenza di redditi tra fasce di popolazione, tra ricchi e poveri.
Currin anche da questo punto di vista è un artista che non si fa affascinare dall’inclinazione contemporanea per una rappresentazione apolitica. Il regionalismo americano degli anni Trenta (del secolo passato) figlio della crisi del ’29 è una lezione sempre presente. Al contrario del Minimalismo o del Concettuale, la storia per Currin è dentro l’opera, non va frammentata o sezionata con opportuni tagli per farla sembrare meno orribile nelle sue conseguenze. Currin è l’unico artista USA che abbia pubblicamente dichiarato le sue simpatie repubblicane e per questo durante l’apogeo dei movimenti Me&Too è stato fortemente penalizzato.
Intorno a Capri, tutti pronti a percorrere le rotte del pentagono delle isole del mediterraneo. Sono rotte lungo le quali gli incontri con barconi di migranti sono altamente improbabili. Ma in esse si ancorano, con le loro lussuose imbarcazioni, i vincitori dell’economia del post Covid, della rivoluzione tecnologica USA. Salgono pazientemente per le scale e percorrono il sentiero che porta alla villa Malaparte. Poi, dopo dichiarazione scritta di non aver nulla da reclamare per eventuali incidenti visto che la terrazza è priva di balaustre, salgono sul tetto terrazzo della villa, la villa di uno scrittore innamorato dei momenti più neri nelle sue cronache dell’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale.
Currin presenta nei saloni della villa opere con la stessa allure con cui e venivano esposte le opere nelle Biennali antecedenti al trionfo critico di Harald Szeemann. L’artista non viene intimidito dalla storia, dal sentirla sempre lì che ti insegue e ti afferra costringendoti a dipingere quello che devi e non quello che vorresti. Lo racconta con il corpo femminile.