C’è posta per Gian Lorenzo Bernini

C’è posta per Gian Lorenzo Bernini
Ph: https://www.elfo.org

Arriva una lettera. Bernini la legge e grida il suo sdegno per Francesca Bresciani autrice degli intarsi di lapislazzuli nella Basilica di San Pietro in Vaticano nel 1673. Francesca è figlia di Francesco Bresciani famoso intagliatore e anche lui impegnato a Roma. Insomma, si creò una certa confusione storica che tardò secoli ad essere chiarita.

Il motivo della lettera è che Francesca Bresciani vuole essere pagata per il lavoro alle dipendenze del più grande artista vivente, parole dello stesso Bernini, mentre dovrebbe essere un onore solo stargli vicino.

LETTERE a BERNINI è un monologo che si svolge interamente in un giorno d’estate dell’anno 1667, esattamente il 3 agosto, nello studio dello scultore pittore e massima autorità della Roma barocca.

Lo ha messo in scena recentemente, al Teatro Elfo Puccini di Milano il regista Marco Martinelli con Marco Cucciola, scene di Edoardo Sanchi, ideazione di Marco Martinelli e Ermanna Montanari.

Marco Cacciola è credibile nei panni di un Bernini in lotta contro tutti e tutto, malgrado l’invidiabile successo. Ma l’infuriarsi con la donna costringe Bernini a evocare “in absentia” l’ombra dell’odiato e geniale rivale, Francesco Borromini.

Marco Martinelli, autore del testo e della regia rende il monologo sciolto dando luogo a un dialogo tra prima e terza persona. Crea, cioè, uno specchio tra l’attore e Bernini. Anche in scena appare uno specchio. Bernini lo alza, osserva gli spettatori e poi si guarda. Ma cosa vede? Gesticola, grida, mugugna, compone gesti improbabili, rimane inerme. Il Bernini confuso che si guarda allo specchio non trova quello vero, è solo una metafora.

A causa di questo rincorrersi monologante tra i due, si generano sulla scena figure, ricordi e presenze. Ci viene mostrato un Seicento non così lontano, ma che parla di noi, un secolo sospeso tra la nuova scienza e l’attuale incombente imbarbarimento.

La sobria drammaturgia è sostenuta da una spoglia scena monocroma, un tavolo di lavoro, un blocco di marmo collocato in primo piano pronto a essere scolpito e tre grandi case verticali da imballaggio.

Bernini in uno dei più concitati momenti dell’opera va su tutte le furie sdegnandosi a proposito della capricciosa condotta dei papi. Il messaggio è chiaro, ci confida – lui che ha lavorato per ben cinque papi – la difficile convivenza tra arte e potere.

Adesso Bernini apre finalmente le tre casse che erano rimaste mute e dimenticate in scena mostrando tre grandi schermi.

La regia, è evidente, ha voluto chiarire la diatriba arte-potere scegliendo un filmato storico degli anni trenta dove il grande direttore Wilhelm Furtwangler (1886-1954) dirige la Berliner Philharmoniker davanti a potenti gerarchi seduti in prima fila in una affollata e adorante platea.

Quando giungerà l’ultima lettera con la notizia inaspettata del suicidio di Francesco Borromini entra in scena la pietas e Bernini inizierà a riconsiderare l’opera del grande collega. Ma entra in crisi, il suo carattere si addolcisce, decide che Francesca riceverà il dovuto. E si chiede cos’è il potere, cosa sono gli artisti, cosa siamo noi. Bernini risponde a questa inquietante domanda: niente.