Luogo e ascolto insieme, le installazioni di Crisafulli

Vale la pena soffermarsi su quelle circostanze, secondo il racconto dello stesso autore.

È il giugno del 1990 e l’artista e i componenti del suo gruppo di lavoro si recano sull’Etna per girare un breve film da utilizzare nello spettacolo. Invece del luogo che hanno in mente per le riprese ne incontrano un altro: «una sorta di ziqqurat creato artificialmente in seguito al dissodamento del terreno circostante recuperato alla coltivazione. In cima alla collina, due elementi di grande forza e semplicità archetipica: una piccola casa, col tetto a due falde, costituita da un unico corpo a pianta quadrata, con una sola porta centrale sul fronte, come nei disegni dei bambini; e un grande pino marittimo»[1]. Lì decidono di fermarsi, ma non sanno esattamente cosa faranno. La novità del luogo, le suggestioni che da esso promanano, li costringono a ripensare le soluzioni prospettate in teatro. «Era necessario abbandonare, almeno temporaneamente, le tensioni e certi principi […] che ci avevano guidato fino a quel momento. Per metterci in una condizione di apertura e di ascolto. Fu quella disposizione meditativa a metterci in grado – nei giorni successivi – di far entrare il luogo nel processo di lavoro»[2]. La definizione “teatro dei luoghi” arriverà più tardi. Prima c’è l’epifania del luogo e la disponibilità a captarne i messaggi. «Da quel momento era anche il luogo a dirci cosa dovevamo fare. Mi resi conto in quell’occasione delle capacità che il luogo possiede di fornire indicazioni al lavoro teatrale»[3].

Non è l’unico caso in cui viene messo in rilievo il ruolo del lavoro compiuto con gli allievi scenografi. Specificamente legato alla didattica è, ad esempio, il tipo di ricerca cui l’autore ha attribuito la definizione di “drammi della tecnica”. Si tratta di spettacoli senza attori, realizzati perlopiù come esito di attività laboratoriali, in teatri tradizionali, assumendo i dispositivi e le attrezzature del palcoscenico come protagonisti e soggetti di costruzione poetica. Anche a proposito di essi, incontriamo un’affermazione rivelatrice: «Forse è proprio nel corso dei primi laboratori degli anni Ottanta, svolti in un piccolo teatro all’italiana, che ha cominciato ad affacciarsi dentro di me l’idea di teatro dei luoghi»[4].

L’attore, dunque, è una presenza non indispensabile nel teatro di Fabrizio Crisafulli, e ciò rappresenta una relativa anomalia nell’attuale panorama teatrale italiano. Eppure, in modo forse inatteso, proprio agli attori sono dedicate alcune delle osservazioni di maggiore finezza. Spogliato d’ogni aspetto autoritario, infatti, l’operato del regista si tramuta in una sorta di maieutica volta a stimolare nel performer la condizione creativa. «Attraverso le mie proposte – scrive – cerco di indurre tutti a trovare la propria via […] di favorire nel gruppo una disposizione aperta, ricettiva, volta all’ascolto. Tentando di agevolare le soluzioni per un lavoro solidale, silenzioso, meditativo. Attento agli spazi, alle cose, ai rumori e ai passi. Non invasivo e non preoccupato di trovare soluzioni immediate»[5].

Il regista, quindi, si identifica con colui che propone relazioni, e non impone soluzioni. Mentre l’attore, da parte sua, deve attingere uno stato nel quale convivano le attitudini apparentemente antitetiche di “abbandono” e “vigilanza”, di passività e attività: «Alla base di questo c’è anche l’idea […] che, per poter fare in scena, bisogna prima essere capaci di non fare; e per poter parlare bisogna prima avere la capacità di non parlare. Avere la capacità di essere presenti al luogo. Di stare sul posto. E riguarda la convinzione che le sfere dell’ascolto, dell’osservazione e dell’attesa non siano, per l’attore, meno importanti di quelle della parola, dell’iniziativa e dell’azione. E che siano anzi, rispetto ad esse, costitutive e complementari»[6].

[1] Fabrizio Crisafulli, Il teatro dei luoghi…, cit., p. 28.

[2]Ibidem.

[3]Ibidem.

[4] Ivi, p. 45.

[5] Ivi, pp. 109-110.

[6] Ivi, pp. 111-112.

Le principali nozioni-chiave nel lavoro di Crisafulli sono dunque due: ascolto e relazione. Sono i lemmi di cui si serve più frequentemente nel suo descrivere le procedure e le modalità operative del “teatro dei luoghi”. Il luogo è un tessuto vivo di memorie, storie e relazioni. Il luogo va abitato e ascoltato. Il luogo è una realtà dotata di un’identità propria con cui occorre porsi in rapporto e che svolge un ruolo generativo rispetto alla creazione: «Nel lavoro

preparatorio una funzione centrale è sempre svolta dall’ascolto, dalla disposizione a stare sul posto, osservandolo e abitandolo a lungo. E, per quanto riguarda il rapporto con gli oggetti e le architetture, anche dall’attitudine a conferire alla sfera inorganica uguale peso che a quella organica. All’inanimato la stessa importanza che all’animato.

Fotografia in bianco e nero delle attrici Anne Line Redtrøen, Giovanna Summo, Carmen Lopez Luna in primo piano sorridenti

Che vuol dire rivolgere attenzione alle “cose”, viste come elementi con vita propria. Non come semplici valori d’uso, entità da “manipolare”, “scenografare”, sottoporre al lavoro, da assumere come “accessori” o elementi di sfondo dello spettacolo, ma come realtà sensibili, da far “essere” nel lavoro con la loro autonomia e la loro “anima”»[1]. È un’affermazione interessante non solo perché esemplificativa delle qualità di ricettività e sensibilità che insistono in questo tipo di lavoro, ma anche perché evocativa della tensione verso una dimensione sottile e ineffabile, qualcosa come un’anima mundi, che va intercettata e svelata, pur senza compiacimenti spiritualistici e mai rinunciando a una forte carica ironica.