Quando ero un uomo

Là conobbi e feci amicizia con Miro Silvera. Ebreo di Aleppo, da molto tempo tentava di fuggire con la famiglia in Italia. Al Baron viveva sotto falso cognome e così, rischiando, scriveva il suo romanzo Il cantastorie di Aleppo. Quando uscì il film, i Siriani si accorsero di aver compiuto un errore e rifiutarono il visto anche a me. Non c’è più nemmeno l’Hôtel l’Oasis di Algeri. Qui Wilde, davanti a una tazza di caffè, regalò a Gide un piccolo musicante. Il ricordo di un ardente dorbuka infila un’estasi dopo l’altra nelle pagine delle lettere dello scrittore. Qui all’hotel Oasis Gide ricevette la prima lettera di Cocteau, il quale non riuscì mai a sedurlo. Quando negli anni Settanta andai ad Algeri, mi alloggiarono in un piccolo modesto albergo dietro una grande moschea, di cui non ricordo il nome. Portai una lettera e restituii dei biglietti aerei al promesso sposo di un’amica parigina. Lui era un potente petroliere e statista di un clan influente. Lei in passato aveva studiato con lui alla Sorbona. Era un giovane algerino bello e dalla pelle bianca, pronto a tutto per amore di lei. All’ultimo minuto lei aveva deciso di non rovinargli la vita. Essendo di Mosca, capiva che la carriera politica di lui, strettamente legata alla Russia, non si sarebbe mai realizzata se si fosse celebrato il loro matrimonio. Certo anche l’incontro con me aveva avuto il suo ruolo in questo romanzo geografico.

Ma il più caro alla mia anima pellegrina resta fino a oggi l’Albergo della Luna, ad Amalfi, un antico convento bizantino che era stato rifugio di Francesco d’Assisi. Potevo osservare per ore dalla terrazza le rapide luci delle barche dei pescatori. Le lampare baluginavano nello scintillante cielo-mare come stelle dall’altro mondo.

Ero indifferente alle donne. Nei film sulle invasioni barbariche o su antiche guerre e scorribande, gli uomini erano delle furie, mentre le donne si trascinavano sulla neve in preda ai singhiozzi, piangendo i loro mariti e i loro figli. Erano pietose. Non mi piacciono, i loro singhiozzi. Certamente, a volte cenavo in albergo: candele, vino nel cestello con il ghiaccio, oppure al ristorante: sushi e sashimi, fois gras e sauternes; molto raramente in un qualche domicilio temporaneo: take away da un ristorantino cinese, sakè oppure denso vino cinese tiepido. Un legame assennato, gioco e passione, alcuni giorni di devozione, fiori e poi di nuovo solo.

A dire il vero, qualche anno fa è successo un fatto insolito. Sognavo di notte una commessa di un negozio russo a Friburgo, di tedeschi russi, una ragazza magra alta e con i capelli neri, sui vent’anni. Sempliciotta e probabilmente non molto colta, avrebbe potuto essere, con una lieve forzatura, mia nipote, ma io non potevo farci niente. Odorava marcatamente di giovane sudore trascurato. Quell’odore mi ha perseguitato. Finché… non ho conosciuto la madre.

Alta, ben fatta, con gli occhi e i capelli scuri, il seno ancora sodo e fianchi rispettabili, attirava l’attenzione di tutti gli uomini che le passavano accanto; quando questo succedeva, i suoi occhi mandavano un bagliore rapace. Brillarono in modo strano e assente, incontrandosi con i miei, imperturbabili come quelli del nonno, ma privi del minaccioso pince-nez. La sera finimmo a letto. Nulla ci accomunava. A parte il fatto che lei era la donna della mia vita. Troppo tardi!

Mi frugava con il suo corpo, dal desiderio perdeva i sensi. Io agivo come se avessi trascorso tutta la vita a letto. Soffriva e gemeva di piacere come una gatta rabbiosa, resa pazza dalla sorpresa. Mi sembrava di conoscerla fin nelle pieghe della pelle, fin nelle viscere della carne, nelle linfe, divenni il suo sangue e il flusso dentro alle sue vene, mi stabilii nei suoi pensieri. La mia vita vuota e priva di volontà cominciò a crepitare come legna secca su un fuoco giovane.

Una volta, di sera, sparpagliando per tutto il letto le gambe e le braccia, come Giunone quando l’incendio si va placando, chiese con una voce che avrebbe fatto fuggire tutte le fiere della giungla: Quando mi sposi? Io risposi con raccapriccio, ma senza aspettare nemmeno un secondo, buttando fuori un falsetto acuto, ma-i! Fu la fine. Da quel momento, nei suoi occhi comparve l’ansia e una sorta di avvilimento, come quello delle donne medievali che gli uomini trascinano per i capelli o picchiano. Così non l’amavo. Ma non ne frequentavo altre. La follia dell’ultimo ed esclusivo desiderio aveva svuotato il mio cervello, la mia carne. L’impotenza spirituale era determinata dal destino, nel Sovdep. Ed eccomi tornato sulle tracce dell’infanzia e della giovinezza, cercando di capire come e quando mi hanno privato della passione, dell’ambizione, del movimento. La muffa russa si insinua nell’anima, nello scroto, nel cervello. Fra tutte le donne, amo di un amore elevato zia Gertrude di Friburgo. Lei appartiene all’era dei dinosauri. Sono tutti morti, tranne lei.

Sui viali del parco dove sono cresciuto incontro molte figure, come me, solitarie. Niente le congiunge al mondo, se non le trasmissioni sul canale Kul’tura. Ma questo è più che altro un mondo sepolcrale. Le persone non comunicano fra loro, non si salutano, non si sorridono, non si fanno cenni. Così il lento veleno dei soviet perpetua la sua efficacia di generazione in generazione. I volti impermeabili delle giovani donne ordinate sono guastati da un’espressione cattiva, scostante, insoddisfatta di tutto. Una bambina grida con cattiveria compra! E ora il nuovo mondo ormai senza idee divide e impera. Alle otto di sera tutti si affrettano al proprio televisore. Soli, indifferenti l’uno all’altra, senza bramosia. Qui non succedono romanzi di villeggiatura. Qui gli uomini e le donne non si vedono. Qui si fanno figli di rado e per dovere. Loro, per vendicarsi, quando non strillano compra sono silenziosi e già soli e impassibili.

Dietro alla dacia del nonno piantarono, il giorno del compleanno della mamma, una betulla e un ippocastano. Oggi sono due alberi poderosi. La betulla è cresciuta avviluppandosi al tronco dell’ippocastano. L’ippocastano l’ha stretta in un abbraccio con i suoi possenti rami. E così se ne stanno in piedi, compenetrandosi nell’ultimo, nell’unico amore del mondo.

Dall’incubo mi ha salvato mio cugino. Un tempo studiavamo insieme al Mgimo4 quell’università che io non ho terminato. Anche lui ha vissuto per tutta la vita all’estero, ma ora si è stabilito a Mosca. Bello, brillante, erudito, mondano e affabile, vestito in modo impeccabile come se fosse cresciuto a Milano, con abitudini raffinate. Gay. Mi ha portato a prendere uno šašlyk caldo e poi via, a Mosca, lontano dalla malinconia. L’unico, nel paese della mia infanzia, che parlava d’amore. Presso l’albero dell’amore abbiamo raccolto per ricordo una castagna ciascuno.

 

Nei dintorni di Mosca, agosto 2002.                

 

1 fabbricato

2 casa di cura

3 carne allo spiedo

4 Moskovskij Gosudarstvennyi Institut Meždunarodnyx Otnošenij (Istituto Statale per i Rapporti Internazionali di Mosca).