Quando ero un uomo

Immagino il luccichio adirato del pince-nez del mio nonno-di-ferro, che amava l’ordine, il bagliore elegante dei lampadari e della cristalleria, quasi l’ordnung tedesco. Era poi un russo purosangue? E ce ne sono poi qui?

Camminavo per il parco dove nel secolo scorso cantavano uccelli esotici (il proprietario tedesco era un pazzo, come ogni tedesco in Russia –la pazzia libera è una sconfinata pianura: in lei si espandono forme, sostanze, idee). Al posto degli uccelli, il ciangottare delle oche sugli stagni in fiore, immobili sotto una spessa lemna di malachite. Le barche sull’acqua pietrificata, pronti i remi. Terribile pensare di cadere dentro quell’acqua che ti avrebbe inghiottito in quella verde sostanza marmorea senza un suono, apatica.

Uno degli stagni ancora rifletteva l’immagine speculare degli alberi. Ma anche quello specchio sembrava di pietra. E il verso delle oche era sordo e sibilante, come il groviglio di serpenti nella cattedrale induista dell’Eros ricacciato nelle giungle. Le anatre di Pechino, grosse come oche, come si è appreso, non fanno grè-grè, non crocchiano, ma stridono. Bianche, con i becchi gialli, facevano breccia nella superficie di pietra del lago verde, che dovevano ripulire beccando, ma il lago, con un incantesimo, le trasformava in figure marmoree. E strano pareva l’odore rivoltante degli escrementi di uccello e delle penne in quel regno solidificatosi in una brina verde.

Nel bosco in stato d’abbandono, residui del falò per cuocere gli šašlyk3 (lungo la strada che parte da Mosca c’è l’insegna «Šašlyk caldi») e dappertutto plastica, lattine di birra, bottiglie vuote.

Pareva che il pattume penetrasse nei polmoni come polvere, mi diventava difficile respirare. Con passo veloce ho raggiunto il bar nell’edificio principale. Qui si poteva cambiare la valuta e, pagando con soldi grandi, bere un caffè privo di gusto o qualsiasi bevanda alcolica. Puzzo sottile di urina e di muffa, mentre nella hall davanti alla toilette feriva il naso il cloruro di calcio. Nel bar stesso vi era buio e si sentiva l’odore di carne bruciata. Non c’era modo di respirare. Nel parco, l’alito di torba degli incendi intorno a Mosca. Difficile trovare un posto. I locali erano molti, arredati in modo inverosimile con del ciarpame tra cui verdeggiava allegramente un biliardo nuovo. Con difficoltà, attraverso corridoi scuri come budella, mi sono fatto strada fino al parco.

Le lastre di cemento dei vialetti e delle piazzette erano infestate dall’erba e vacillavano come per il respiro pesante della terra. Di tanto in tanto nel vecchio parco si chiudeva sopra la testa un antico, incredibile bosco – memoria di splendori, di terreni imperiali di caccia e di bellezza. Improvvisamente si è aperto un sipario, e il respiro è mancato questa volta di fronte alla vista inattesa (come il jolly che sbuca da un gioco a molla) dell’acqua liscia come uno specchio, della folla di tigli, betulle e abeti che correvano attraverso la vallata – così alti che il cielo lo si vedeva lontano, sovrastante, come da in fondo a un pozzo. Gli scoiattoli correvano. Le cornacchie borbottavano inquiete all’oscurità. Le cicale frinivano qualcosa a proposito dell’estate. Una ciminiera di mattoni completava il paesaggio: sembrava un forno crematorio dei tempi di guerra. (Qui davvero c’era un ospedale militare. Solo dopo la morte del nonno era diventata una casa di riposo governativa). Come una rima, le rispondeva la guglia del monumento al cane del proprietario terriero, che hanno trasformato in monumento al milite ignoto.

Mi accompagnava per il parco un cane del posto. In seguito, si è avvicinato di corsa un intero branco di randagi. Che volessero riconoscere in me un padrone? Nella stanza il canale Kul’tura trasmetteva inutili documentari nostalgici su vecchie glorie – eroi del continente sprofondato. Come se la cultura fosse scomparsa insieme ad esso. Non c’era niente di nuovo. E non c’erano più i giovani nel paese. E non c’era creazione, immaginazione, vita. E non c’era più l’amore, né il paese. Continuavo a respirare con affanno. Ho pensato alla fascia rossa sulla mappa della Rivoluzione russa, che coincideva con la geografia della servitù della gleba. Indistruttibile.

Davvero l’unica conquista è il canale per pensionati Kul’tura? Ho pensato al nonno e ai suoi compagni di lotta – boiari rossi. Ancora a lungo in questa casa i tavoli sono stati apparecchiati con tovaglioli rigidamente inamidati, posateria fragét e servizi firmati. Meravigliose zuppiere ancora abbellivano i tavoli del ristorante per nuovi benpensanti.

Lontano dalla vita reale, un cinema degli anni Trenta: tolto il sonoro, lo si può prendere per tedesco. Perché i fascismi rosso e nero infiammavano tanto l’umanità? Cos’è successo allora in Europa? Davvero per educare le masse c’è bisogno di una forma militarizzata di pensiero e di comportamento? Nessuno ha osato gettare un fiammifero sulla strada della Russia degli anni Sessanta, già vagamente liberalizzata. Il Sovdep era ossessionato dall’ordine. Il suo pathos inquisitorio lo garantiva. Da tutto ciò io sono fuggito per tutta la vita. Non conoscevo (né volevo conoscere) i miei genitori. Per questo nessuno saprà se gli hanno sparato o se li hanno spediti all’estero. Ho vagabondato, giornalista-reporter, per i paesi del mondo. Prima tutti i grand hotel delle capitali. Poi, con la perestrojka, i piccoli alberghi, di categoria già bohémien, ma celebri per motivi storici.

C’è un fascino particolare negli alberghi. Sparisci nell’anonimato. La porta sbatte, e resti solo in uno spazio proprio della sobornost’: tanti destini, tanta intima umidità appartenente a una moltitudine di persone, i loro odori misteriosi e appena percepibili. Con questo assortimento di percezioni, libero dalla fattualità della tua biografia, ti distendi nel letto-cortigiana. Il sipario si schiude su nuove sensazioni, l’anima si libera dal letargo. Qui si può realizzare l’ultimo dei desideri: svincolarsi da tutto quello che è rimasto dietro la porta della camera. Motel Suicide, così si intitolava una canzone scritta da Baudrillard. L’Hôtel Las Delicias, non lontano da Buenos Ayres, oggi è diventato un rudere. Ricordo Borges nei corridoi, con un libretto di matematica. A volte calcolava gli incommensurabili cieli, fissandoli con i suoi occhi onniveggenti, respirando gli odori del sobborgo Androguè, preso tra le braccia di impensabili eucalipti. Nell’Hôtel Baron di Aleppo vivevano nel secolo scorso circa una quarantina di scrittori. E anche se l’Orient Express passa già da tempo lì vicino, Aleppo, come prima, non appartiene alla Siria, ma all’Anatolia o alla Mesopotamia.