Un Grand Hotel per Eugenio Scalfari

Quella barba, in seguito, sarà “la forma che prese la mia specialità di direttore. Forse perché non era folta e dunque sembrava accademica, imponente nel senso di risorgimentale e perciò laica e autorevole, e forse anche la barba di Babbo Natale, la barba spirituale dell’uomo buono nel nostro giornale-famiglia dove nessuno doveva mai sentirsi solo”). Una barba che augura a Carlo Verdelli, il nuovo direttore della sua Repubblica (“Invece di tagliare la mia barba, consiglio a lui di farsela crescere”). In verità, nessuna barba, nessuna barbalogia è stata così assai poco … barbosa!

Lo sputo sullo specchio.

Il Novecento, fatta eccezione per le barbe di Scalfari senior, di Balbo aviatore, di Gentile filosofo, incluse quelle di Bombacci, compagno mussoliniano, e di Keller cacatore alboreo (pilota-guru, barone dei Keller von Kellerer, milanese, che nel tempo libero se ne stava nudo su un albero da cui lasciava cadere le sue deiezioni. E da qui l’idea di lanciare un pitale su Montecitorio) il Novecento – ribadiamo –non ha subìto o goduto della presenza di barbuti eccellenti. Ha compensato con quel Sessantotto spavaldo e irridente di antiamericanismo wilsoniano che è stata la “festa della rivoluzione” dannunziana di Fiume, oggi Rijeka. Lo rammenta Scalfari jr. in belle e intelligenti pagine per confessare che “Repubblica”, il quotidiano da lui fondato, “è stata un po’ la mia Fiume” e anche lo specchio sulla cui immagine, riflessa durante la rasatura mattutina, sputava, disgustato dannunzianamente dal fascismo, del fascismo, lo Scalfari senior.

La filosofia della storia, tra ricordi e rimozione di ricordi

La sera andavamo in via Veneto (1986) è il capolavoro di Eugenio Scalfari: un saggio di grande e gustosa storiografia contemporanea dove si rinvengono la teorizzazione e la realizzazione della filosofia della storia di Eugenio Scalfari, la teleologia di un egocentrico proustiano, di Narciso (o dell’ idealismo soggettivistico di Berkeley o di Stirner, se al morbido e ben educato Scalfari ebbe a leggere l’irsuto e maleducato Max): “La storia come memoria di sé, il labirinto infinito delle immagini che si riflettono le une con le altre, le sensazioni fisiche come unica sonda possibile per comunicare con il proprio io, e gli altri – tutti gli altri – come comparse di un coro, ben sapendo tuttavia che ciascuno vive se stesso come centro del coro e colloca gli altri alla periferia del proprio girotondo… E per questo la Recherche è stato il nostro libro dei libri, al quale torniamo a riaccostarci come ad una lettura sempre nuova e mai abbastanza compresa”. In questo passo l’Io e/è il mondo, dove Scalfari è Biancaneve e dove il mondo è il giardino dei suoi nani (Incontro con io è del 1994), sovrastati da tre giganti, come Italo Calvino, protagonista di molte pagine che ne fanno un saggio biografico dentro la sua biografia, e i genitori, l’avvocato Pietro, così eccessivo da sembrare un personaggio inventato da un romanziere, e la madre, Domenica “Gina” Scotti, la vera protagonista di quest’ultima stagione teologale di Eugenio, vecchio anticlericale, capitano di lungo corso terzaforzista contro la Chiesa cattolica e quella comunista, credente “in un essere caotico che crea le forme”. Confessa alla penna di Gnoli-Merlo: “Di tutto quello che ho realizzato nella mia lunga vita, la cosa che piacerebbe di più alla mamma è l’amicizia con Papa Francesco. In questi anni recenti mi è stato chiesto che senso ha per un laico parlare di religione o di Dio. Che ne sanno, loro, di me e di mia madre?”. Della madre sappiamo quello che lui ricorda, di Eugenio sappiamo che, radicale o liberal, nel 1958 delle elezioni politiche, a Pavia fu nel mezzo di un comizio minacciato di denuncia per vilipendio al papa (il Santo Uomo era Pacelli). Qualche giorno dopo al teatro ‘Nuovo’ di Milano altro comizio nel quale esordisce con la denuncia “dello scandalo di un paese … governato di fatto da un gerontocomio di cardinali. Per gli applausi … venne giù il teatro”. Nel 1958, la madre era viva tanto, quanto enormi gli interessi in gioco a Roma, nel sacco di Roma il cui “punto d’appoggio principale alla speculazione veniva addirittura dal Vaticano, direttamente interessato alla questione sia perché di sua proprietà erano le principali società immobiliari, La Generale Immobiliare e Beni Stabili, sia perché appartenevano tutte alla ‘nobiltà nera’ le grandi famiglie possidenti dell’agro romano alle porte della capitale e sia perché altri grandi proprietari immobiliari di zone suburbane erano grandi ordini religiosi, conventi, ‘procure generali’ e opere pie di obbedienza vaticana” (La sera andavamo… 1986).

La “stupidità” del fascismo e l’antivaticanesimo della monarchi

Fu fascista a sei anni, Balilla, 1930. A 19 anni, 1943, defascistizzato da Carlo Sforza e vicesegretario del Pnf, sospettò di non essere fascista. Diventò antifascista in convento dove, caduto il fascismo, il Vaticano soleva nascondere nei suoi palazzi alcuni antifascisti o afascisti che vennero fuori dopo l’arrivo a Frascati degli Alleati, sbarcati ad Anzio. E seguì le orme del padre per la direzione nel 1946 del Casinò di Chianciano, conseguita la laurea in Giurisprudenza e dato il voto alla monarchia nel referendum istituzionale del giugno di quell’anno. Quel voto godette della giustificazione antivaticana di Benedetto Croce secondo cui “la monarchia offriva maggiori garanzie di laicità rispetto alla Repubblica, che il Vaticano avrebbe potuto più facilmente controllare. Per troppo cattolici, diceva Croce, <l’Italia è solo il giardino del Vaticano>”. Chiuso il Casinò di Chianciano, dove era stato piazzato dal padre, arriva il tempo del lavoro in banca, alla Bnl, e della collaborazione a “Il Mondo”, fondato nel 1949 da Mario Pannunzio, lucchese, nello stesso anno in cui Arrigo Benedetti, lucchese, fondò “L’Europeo”, due eventi – per Scalfari – “che cambiarono il modo di raccontare la politica e la cultura sui giornali, fino a quel momento segnati da un’asfittica mancanza di novità”.