Contro l’idolatria del bello

IL BELLO EMPIRICO

Se interroghiamo, anche se superficialmente, la letteratura scientifica attorno alla antropologia culturale, possiamo notare come nei popoli che questa disciplina analizza e che solitamente indichiamo con il termine primitivi, l’idea del bello riguarda ciò che è piacevole, utile, che dà soddisfazione, che fa stare bene. Per esempio la rappresentazione del divino è il più delle volte ottenuta con forme che non possiamo che definire brutte o tremende. Anche nella cultura che precede l’età del mondo greco antico, che definiamo classica, si presenta una accezione del bello che potremmo definire empirica. La cultura greca che precede la nascita della filosofia, quella per intenderci non solo presocratica, ma soprattutto quella omerica, utilizzava il termine kalos per indicare qualcosa di soddisfacente, di gradevole, di meraviglioso, per altro come nella parola cinese mei. Bellezza quindi come adeguatezza o stupore più che come trascendenza.

Un grande vecchio delle filosofia tedesca,Otto Pöggeler, per anni direttore dell’Hegel-Archiv di Bochum, traducendo Omero dice che il termine kalos è usato per indicare uno stare bene. E come ben si può comprendere lo stare bene, non è la stessa cosa che noi ancora oggi pensiamo quando usiamo la parola bellezza. Omero usa anche il termine Karis, che ha la stessa radice di kalos, che evoca una ghirlanda o una corona posta attorno alle cose, un intreccio virtuoso, un tessere dove tutto si tiene e si lega. La parola Kalos per altro va accostata all’antico-indiano Kalja che vale per sano, vigoroso, dotato, eccellente, adatto, abile, usabile. Nulla a che vedere con la bellezza considerata come un trascendentale, come ciò che non ha a che vedere con l’utile e con il necessario, come ciò che va fondamentalmente contemplato.

Nelle sue origini e in Omero kalos non ha ancora alcun valore trascendentale, cioè metafisico. Sarà con i presocratici che il termine assumerà questa valenza.

Secondo la testimonianza di Aezio è a Pitagora che si deve l’introduzione del termine kosmos. Di Pitagora si sa poco, ma questo poco è importante. Sappiamo di un suo viaggio in Egitto dove apprese le leggi del canone; si dice di un suo incontro, in altro viaggio, con Zaratustra. Sembra avesse intuito la sfericità della terra. A Pitagora viene attribuita l’affermazione che l’anima é immortale, che il  kosmos é ordinato, che tutto é numero. Tale affermazione nasce, così si racconta, dall’osservazione del movimento degli astri, dallo studio sulla cristallografia, ma soprattutto dello studio attorno al rapporto esistente tra le note e la lunghezza delle corde degli strumenti musicali. Come é possibile e che significato ha l’armonia? Si racconta che, tornato dal lungo viaggio in Egitto, abbia riunito i suoi allievi e abbia costruito davanti a loro uno strumento musicale composto da sette corde di misure diverse disposte con ordine. Pitagora fece suonare le sette corde e chiese agli allievi cosa provavano. Tutti risposero che avevano sentito un suono piacevole. Poi Pitagora prese una delle corde e la sostituì con una più grande: non c’era più una successione ordinata e suonò. Subito gli allievi si tapparono le orecchie e dissero che quello era proprio un suono spiacevole che creava persino disagio. Allora Pitagora prese una grande conchiglia e la tagliò in due e misurò la distanza in un unico asse tra le spirali e mostrò come i rapporti tra le distanze così ricavate erano gli stessi che aveva utilizzato per le corde della lira: ciò che corrisponde alle leggi della natura è bello e buono, ciò che va contro natura è brutto e cattivo. E la natura segue sempre misura, ordine e proporzione (come ripeterà anche Aristotele). Certo, ha probabilmente aggiunto Pitagora, se noi guardiamo un cielo stellato o ciò che c’è all’interno di una foresta vediamo una immane varietà di figure, di forme, ma nostro compito è scoprire in questa varietà le leggi, le regole, l’armonia delle sfere celesti. Anche l’indistinto, il caotico dell’apparenza può essere ricondotto al numero, ma, se il molteplice può ridursi al definito, ci dovrà essere anche un numero tra i numeri, un rapporto, che determina l”ordine” più ordinato, quello che sarà chiamato il numero d’oro, divina proporzione e che ancora oggi usiamo chiamare sezione aurea. Essa é l’anima stessa del mondo e da essa si devono ricavare sia i rapporti interni alle opere dell’uomo, sia i rapporti della figura umana.

E’ probabilmente proprio in Pitagora e con i pitagorici che viene affrontato per la prima volta coscientemente il problema degli universali elaborando anche una relazione ritenuta logica (direi persino logotecnica) tra visibile e invisibile.

La tesi è allora: solo nella cultura classica greco- occidentale viene elaborata una idea (e una pratica, ciò che viene chiamato il classico) che porta al bello oggettivo. Prima e in altre culture l’idea di bello non si configura come oggettività. Può essere percettiva, emozionale, simpatetica, empatica, funzionale e quant’altro, ma non viene concettualizzata nella forma del trascendentale.

IL BELLO OGGETTIVO

L’idea del bello come qualcosa di oggettivo, separato quindi dal modo in cui i singoli soggetti possono percepirlo, si viene a formare all’interno della cultura greca che definiamo tradizionalmente come classica, in diretta corrispondenza con la nascita della filosofia e dell’orizzonte metafisico che la filosofia presuppone. Il bello per assumere questa dimensione deve essere pensato come un trascendentale. Nessuna altra cultura ha ipostatizzato in questo modo di concetto di bellezza. Sarebbe di grande interesse analizzare il passaggio che, secondo lo schema che sto proponendo, avviene nel mondo greco antico dopo l’elaborazione dei presocratici, da una idea di bellezza come uno star bene e quella nella quale il bello diventa ciò che media tra invisibile e visibile e si colloca nel trascendentale, ma non è certo questa l’occasione.