Borat, la recensione kazaka

Dell’irriverenza sfacciata di Sacha Baron Cohen ce ne siamo fatti un’idea già dal primo film di Borat che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Borat, giornalista kazako che ama la sua patria e le sue tradizioni rurali ai limiti del lecito (a volte anche al di là di esso).
Gira l’America in cerca di raccontare ai suoi concittadini il Paese più potente del mondo. Così facendo porta alla luce tutte le sue contraddizioni e assurdità.

Un personaggio sfacciatamente maschilista, ignorante, sopra le righe, spudorato e senza alcun senso dell’adeguatezza. Il personaggio che tempi come i nostri si meritano in pieno.

Con il pretesto di essere un giornalista straniero di una nazione quasi terzomondista, Borat si avvicina ingenuamente ai personaggi più assurdi della società occidentale che si trova ad esplorare. Nazionalisti antisemiti, sostenitori del diritto di possedere armi di tipo militare, gruppi antiabortisti, politici, attivisti dalle idee discutibili e ignari cittadini che reagiscono alle sue provocazioni in modo imprevedibile. 

In questo suo nuovo lungometraggio (docufiction) dal titolo chilometrico (Borat – Seguito di film cinema: consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan) si mescola realtà e finzione in un mix complesso e allo stesso modo molto diretto.

Le sue domande, sempre fintamente spontanee, in realtà ben studiate, mirano a scoperchiare temi molto scottanti e di attualità. Dal tema dell’aborto alla figura del presidente Donald Trump. Dal perbenismo di facciata alla scarsa cultura di un Paese che vuol definirsi il più progredito del globo.

Per essere un film frutto di una serie di performance slegate tra loro, Cohen riesce a legare bene le diverse fasi e affronta anche, con sciolta maestria, il tema, pare capitatogli a metà lavorazione, del Covid. E lo fa con una capacità magistrale di improvvisazione. Una delle parti del film è infatti incentrata sulla convivenza forzata di lui, “Borat”, con due cittadini americani dalle convinzioni complottiste. Davvero notevole la capacità di rimanere nel personaggio, e che personaggio, per giorni.


Novità eclatante, in questo nuovo capitolo, è la comparsa e il protagonismo della figlia di Borat. Questa new entry porta il film a toccare i temi dell’emancipazione della donna con l’indelicatezza prorompente che ha fatto di Borat il personaggio che è. Scandaloso, poi, il momento in cui una “finta” intervista a
Rudolf Giuliani sembra deviare verso un approccio sessuale con la “finta” intervistatrice. 


Insomma un altro colpo messo a segno dal comico, regista, attore e quant’altro più interessante del momento. 

Nota a margine: il film è dedicato ad una signora che è venuta a mancare prima dell’uscita e che è stata protagonista (semi-inconsapevolmente) di una delle scene più sinceramente toccanti. In questa lei parla della sua detenzione nei campi di concentramento ad un Cohen travestito in modo parecchio irriverente.
Notevolissimo.

vedi anche:
https://www.youtube.com/watch?v=cjH682hc1bo