EVELINA SCHATZ – Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della Bellezza.
Cadono imperi, muoiono ideologie ma non il concetto. L’artista non è forse l’esagerazione della natura delle cose? Furenti pennellate, tempestose marine, sabba della carne di marmo o di colesterolo, fino alla bellissima Marina Abramovič che lucida una montagna di ossa, uno a uno, in mezzo all’irresistibile e truce fetore di carne e di sangue, proprio perché sta pulendo le ossa della carne putrefatta. E vince il primo premio alla 58ma Biennale Arte di Venezia.
Scrissi: creare = abdicare. Ma è anche sottrarre. Ed è senz’altro esagerare esagerare.
Esuberanza di un Rubens, l’ultimo uomo universale del Rinascimento, o di un Picasso, migliaia e migliaia di quadri, ma anche di uno Strindberg che non solo rinnova la drammaturgia ma è anche pittore a pieno titolo, un colpo d’ala e si libra sul tempo. E che dire del O il furore lieve (dite che è una contraddizione?) di un Cocteau. Collezionisti di tutto il mondo danno la caccia a migliaia di suoi fogli e foglietti con geniali disegni e scarabocchi mai catalogati. D’Annunzio non si accontentava di una tartaruga (morì per l’indigestione di tuberose), vantava decine di borzoj, levrieri russi, quelli degli zar, i cani più veloci del mondo. A proposito dei russi: un richiamo inevitabile a Tolstoj, con centinaia di titoli di indiscussa qualità e una biografia non meno inquietante, ma altrettanto teatrale, di quella di D’Annunzio, altro versante di un’epoca. Scrive un poeta dei nostri giorni: all’ombra di D’Annunzio sciabordio di epoche alte.
La storia che ignora arte poesia o letteratura, che ignora la bellezza, è una storia arida, proprio come arida è una società priva di bellezza, di parola, di suoni colti, che variamente la illuminano e ne sono illuminati. Naturalmente la grande arte e la grande letteratura trascendono sempre il momento storico che ha dato loro vita. In ciò consiste la loro grandezza e insieme la trascendenza che consente loro di sopravvivere al contesto storico che le ha generate. Disse Fernand Braudel che l’arte e la letteratura sono les vrais témoins de toute histoire valable.
Nel Medioevo l’arte europea ebbe origine dalla Chiesa, la sorgente delle idee, e dalle città, le sorgenti della ricchezza. Le libere città commerciali d’Italia, delle Fiandre e della Renania, della Germania meridionale e della Russia del Nord furono il motore economico dell’Europa medievale e la culla dei grandi artisti. Illustri scuole d’arte fiorivano nelle città delle grandi banche: Anversa, Bruges, Gand, Firenze, Norimberga, Siena, Venezia. Poi fu la volta delle corti principesche. Fu il Rinascimento a generare il mecenatismo, l’epoca dei principi e degli artisti, e una linea di ricerca iperbolica che si spinge fino al Barocco. E nel mentre si produce la Riforma e la Controriforma e l’impero di Carlo V, con il suo disegno umanistico, per non dire dell’ultimo conflitto interno al cristianesimo militante e per non dire della brutale Machtpolitik della guerra dei Trent’anni. Un periodo nella storia d’Europa in cui grande arte e grandi idee furono intimamente legate.
Fu anche l’epoca, si è già detto, dei grandi mecenati. Gli artisti protetti dai Principi riflettono mutevoli trascorsi della storia. Ora, lo studio di questi artisti e di quel mecenatismo nel loro contesto storico aiutano a capire meglio l’odierna crisi della società o delle idee, nel mentre puntiamo a confidare in una Europa Nuova. E i temi che si intrecciarono furono il sogno dell’impero universale, la gloria di una particolare dinastia o di un Principe, la natura, la crociata per l’unità religiosa, il trionfo militare sugli infedeli.
Il mecenatismo offrì all’arte e agli artisti stimoli e opportunità, ma in ogni caso li lasciò sufficientemente liberi di esprimere il loro esprit. Oggi, in un momento speciale della mutevole Weltanschauung europea si riflette sul futuro della UE, ma senza guardare al pregresso e a quanto di stimolante esso può darci in connubio con l’innovazione.
Un caso esemplare di mecenatismo oggi è quello di Antonio Presti, l’ultimo principe del Mediterraneo o il primo dell’Europa-da-farsi, celebrato in diversi linguaggi. Ormai, da decenni, in un dimenticato ma non dimentico angolo della Sicilia di una piccola baia assopita di blu, si affaccia un albergo-Museo unico al mondo, Atelier sul mare di Castel di Tusa. Stanze misteriche realizzate da importanti artisti contemporanei. Esse hanno un filo rosso con la Fiumara d’Arte, il parco delle sculture monumentali più vasto d’Europa, che si sviluppa nella stessa zona. Si compie, così, il rito della Devozione alla Bellezza. Quali ambizioni di antiche grandezze seducono Presti? Gli artisti prima, poi i poeti e ora gli scrittori delle terre lontane. Tutti in Sicilia, soldati della patria che vuol dire cultura da salvare, i suoi cortigiani e propagandisti — tutti sognando la rinascita culturale.
Visionario e fondatore del suo mito, Antonio Presti, figura speciale del Novecento, raro paladino delle arti contemporanee o forse il Don Chisciotte della Sicilia. Ci attrae tutti, poeti e artisti, con i suoi sogni e chimere, i suoi vasti disegni e progetti di grande respiro, le sue crociate contro volgarità e ignoranza, il suo mutevole fascino siculo e il suo personale interesse creativo per ogni segno del futuro. Di lui, mecenate in un’Europa che nasce a fatica, scriveremo a parte per indagare il futuro e per conoscere l’intramontabile spirito italico dell’esubero creativo. Quasi eco del commento di Paolo Veronese davanti al tribunale dell’Inquisizione: Se nel quadro li avanza spazio io l’adorno di figure…
Erano passati 1562 anni dal pranzo di nozze in Cana di Galilea e dall’acqua delle sei idrie diventata vino prezioso, quando, esattamente il 6 giugno, i monaci di San Giorgio Maggiore di Venezia stipularono un contratto. Questo impegnava il pittore Paolo Caliari detto il Veronese a rappresentare quel miracoloso evento in un telero da collocare nel refettorio di quella chiesa. Il Vangelo di San Giovanni ci dice trattarsi di un pranzo con poche decine di persone di basso ceto, dato che Gesù e il padre putativo, Giuseppe, erano falegnami.
Paolo Veronese lavorò come un matto, per oltre un anno, a Le nozze di Cana (1563) di cm 666 x 990, raffigurante una sorta di spettacolare palcoscenico da teatro cinquecentesco – colonne, balaustre, un campanile – dove si svolge il pranzo, o piuttosto la festa veneziana con 132 convitati. Egli ci presenta, nei panni di musicisti, Tiziano (basso), Tintoretto (viola). Alle prese con altri strumenti, Bassano e lo stesso Veronese.
Un giorno lo convocarono gli inquisitori. Vollero sapere del suo modo di aggiornare i fatti sacri. Tutti quei cani e buffoni, belle donne scollacciate, e animaletti esotici, e archi, e colonne intorno a Nostro Signore. E poi l’affannarsi sensuale dei cuochi, credenzieri e trincianti, dei cantinieri e camerieri per servire i commensali riccamente vestiti, eh insomma! Cosa avrebbero mangiato Gesù e Maria durante il pranzo immaginato da Veronese? Si sa che, insieme a valanghe di pesci e pesciolini innaffiati con vini aromatici, durante i pranzi solenni a Venezia, venivano servite trippe di Treviso, salsicce di Modena, storioni ferraresi, e quaglie di Lombardia, tordi di Perugia, oche di Romagna, oltre a quintali di verdure e di dolci. Un’eresia, insomma! Paolo si difese con fine astuzia: Noi pittori ci pigliamo licentia, che si pigliano i poeti e i matti…
Un aspetto dell’esagerazione è anche la russità, per così dire. Se, nel secolo XV, sulla tavola di Matteo Maria Boiardo comparivano fino a cinquanta piatti, questo numero, sulla tavola dello zar saliva fino a centocinquanta-duecento. Enormi erano anche le dimensioni di questi piatti per i quali si sceglievano i più grossi cigni, tacchini, storioni, oche. Talvolta erano così smisurati che ci volevano tre o quattro persone per sollevarli. Con i cibi si costruivano palazzi e forme di animali fantastici di proporzioni gigantesche. I pasti duravano sei-otto ore, e la decorazione della tavola veniva cambiata decine di volte. Di certo la sopravvivenza non era il solo fine dell’alimentazione. Il cibo diventava un mezzo di comunicazione, un fatto di cultura.
La grandeur francese non è da meno. Il capolavoro di Veronese fu trafugato nel 1797 dai soldati di Napoleone e sistemato al Louvre. Il film di Roland Joffé, “Vatel”, è la ricostruzione più costosa e accurata, forse mai realizzata, dei tre giorni di fasti davvero esagerati che vide il Re Sole alla corte del principe di Condé nella primavera del 1671. Il più grande maestro di cerimonie dell’epoca, François Vatel, è impersonato dal grande Gérard Depardieu, qui per copione in estrema sottrazione di gesti. Davvero grande a gestire l’inverosimile teatro dell’Arte del Palazzo. L’ultimo tocco della grandeur parigina, da 400 milioni di euro, riguarda la ricostruzione del Palazzo delle Tuileries, edificato nel XVI secolo e distrutto nel 1871, durante la Comune. A volte l’esagerazione può avere il sapore di una grande beffa. Non per niente i francesi si sono detti: “C’est une connerie”, una stronzata.
Teatro di mera esagerazione fu il secolo ventesimo. Idi di marzo in nero, tutto era permesso in quella lunga nera primavera. Popoli interi spodestati e spostati per migliaia e migliaia di chilometri nella Russia di Stalin. Opere faraoniche costruite in tempi record sulle ossa dei deportati. Cattedrali nel deserto. Il più esagerato era forse L’imbianchino, pièce teatrale di Donald Churchill, con la voce di uccello del malaugurio. La Shoah ha superato il resto. Così il popolo ebraico è diventato il popolo dell’esagerazione per sottrazione. La Modernità rivelò l’orrore, tutte le rivoluzioni si conclusero in un disastro. E tutti si affrettarono a sbarazzarsi del mondo nuovo. Gettarono l’atomica. Si è persa così la luminosa esagerazione dell’Eros.
Ed ecco la voce dello scrittore giapponese Yukio Mishima: Che importa! Piovano pure altre atomiche. Ciò che si desidera è soltanto la bellezza.
Evelina Schatz, poetessa in russo e italiano, artista e saggista