Postdemocrazia all’attacco

Fotografia colori, esterno, a sinistra bandiera albanese aquila nera due teste in campo rosso, a destra bandiera europea 12 stelle gialle in cerchio su campo blu

Fotografia colori, esterno, a sinistra bandiera albanese aquila nera due teste in campo rosso, a destra bandiera europea 12 stelle gialle in cerchio su campo blu

 

FATOS LUBONJA – I due partiti di opposizione albanese, con in testa il Partito Democratico di Lulzim Basha, hanno deciso ultimamente di lasciare i mandati parlamentari dichiarando che non possono più sostenere la facciata democratica di un narco-stato, battezzato ultimamente da The Independent come “Colombia d’Europa” e hanno scelto la strada delle proteste continue.

Contro questa decisione si sono schierati gli euroburocrati di Bruxelles arrivati a Tirana. La loro posizione può essere riassunta brevemente in una formula molto nota in Albania: avete compiuto passi in avanti verso i nostri standard, quindi non dovete fare questo passo indietro.

Lo stesso atteggiamento è emerso anche verso le proteste antiautoritarie dell’opposizione in Serbia e Montenegro.

Come si spiega questo sostegno incondizionato all’autoritarismo, alla corruzione e alla crescente collaborazione del governo con il crimine organizzato? La causa non si deve ricercare semplicemente nella prevalenza data alla stabilocrazia in questi paesi, ma più a fondo, nel contesto dell’evolversi dopo la Guerra Fredda dei paesi occidentali e nei rapporti di questi ultimi con i paesi emergenti a regime comunista.

La narrazione della transizione e la sua crisi

La narrazione della transizione dei Paesi ex-comunisti verso gli stati a economia capitalista, costruita all’inizio degli anni ’90, si è basata sulle idee semplicistiche della “fine della storia” di Fukuyama e quelle dei “paesi lacerati” di Huntington. Secondo questa narrazione, le élite occidentali (all’opposto della mentalità orientale delle loro popolazioni, per questo chiamate “Paesi lacerati” da Huntington), dovevano patire un tempo relativamente lungo per guidare i loro popoli verso la “terra promessa”. Cosa che i paesi occidentali avevano già raggiunto (la fine della storia ndr). L’immaginario di questo viaggio è stato chiamato “transizione”, che avrebbe dovuto realizzare la fine dell’espansione dell’Europa secondo un modello che avrebbe, successivamente, conquistato il mondo intero.

Il ruolo delle élite politiche occidentali nei paesi dell’Est, in questi 30 anni, è diventato quello di guida e controllore di questa transizione, ruolo che negli stati ex-comunisti assai spesso si è esplicitato nella formula “avete fatto progressi verso i nostri standard, ma dovete ancora camminare per raggiungerci”. Nel frattempo, le élite dell’Est hanno assunto questo ruolo che ha garantito loro anche la legittimità del potere e hanno impostato le loro gare elettorali su chi sta facendo di più per raggiungere gli standard dettati dagli occidentali per l’integrazione nell’Unione europea. Alcuni di questi paesi hanno raggiunto il successo nell’adesione all’UE, altri, come quelli dei Balcani occidentali sono stati lasciati in fondo alla carovana e parrebbe stiano avanzando nella giusta direzione.

Dietro questo viaggio virtuale e propagandistico, in realtà, c’è stato un altro viaggio, sia nei paesi occidentali che in quelli dell’Est, che ha portato questi ultimi a livelli molto diversi rispetto alla previsione dei primi anni ’90. Per quanto riguarda l’Occidente, basta considerare l’arrivo di Trump al potere negli Stati Uniti, la Brexit e i movimenti sovranisti nei paesi dell’UE. Per quanto riguarda l’Est europeo, è opportuno ricordare gli sviluppi autoritari e autocratici negli stati membri, come Ungheria o Polonia, per non parlare dei paesi che non sono ancora entrati a far parte dell’UE, come Albania, Serbia e Montenegro, dove si assiste alla conquista sempre più drammatica dello Stato da parte di oligarchie criminali. Se consideriamo che nei primi anni ’90 la narrazione della transizione includeva anche la Turchia e la Russia, questo aspetto realistico del percorso diventa ancora più complesso.

In questa storia, l’Albania ha avuto esperienze comuni con gli altri paesi ex comunisti, ma anche delle peculiarità che la rendono una delle espressioni più esplicite della narrazione della transizione e della sua crisi. Ci sono molti dati che dimostrano che negli ultimi 30 anni, più che verso il modello ideale occidentale dello “stato di diritto”, l’Albania si è in realtà mossa nella direzione opposta. Basta menzionare tre fatti importanti. In primo luogo, l’economia albanese, che è sempre stata debole, informale e legata alla criminalità e che negli ultimi anni si alimenta sempre di più con il denaro del crimine organizzato; per constatare quest’ultimo basta considerare il boom delle dell’edilizia a Tirana, le cui risorse finanziarie sono assolutamente ingiustificabili con la piccola parte sana dell economia. In secondo luogo, a causa di questo fenomeno socio-economico, la politica albanese è diventata sempre di più collusa con gli interessi della criminalità organizzata, degenerando in un sistema sempre più autoritario con spazi democratici sempre più circoscritti; l’ingresso negli ultimi anni di trafficanti e assassini in Parlamento, – fenomeno che negli anni ’90 era inimmaginabile – non è una coincidenza. In terzo luogo, a causa della disperazione causata da questa transizione senza prospettiva, il numero di albanesi che ha lasciato il paese è aumentato drasticamente negli ultimi anni (secondo un sondaggio Gallup svolto negli anni 2015-17, circa il 60% degli albanesi vorrebbe emigrare ndr).

Per questo motivo, a differenza di quanto proclamano gli euroburocrati occidentali, oggi non si può parlare di transizione ma, al contrario, di insediamento di un regime autoritario che tende a peggiorare. Ma perché questi esperti inviati da Bruxelles persistono nell’affermare che l’Albania ha compiuto passi in avanti? E peraltro, ultimamente, occupandosi dello sviluppo nei loro paesi, osano mettere in dubbio il mito del progresso, nel mentre parlano di pericolosi passi indietro.  Probabilmente questo è dovuto al fatto che le cause della crisi, sia nei Paesi come l’Albania che negli altri stati europei, sono un comune denominatore.

 

Il neoliberismo e la globalizzazione

 

Nei primi anni ’90, è stato introdotto il principio di “la fine della storia”. Un neoliberismo trionfante sul socialismo reale e radicale (chiamato anche Statalismo o Capitalismo di Stato, ndr) basato sull’idea della Thatcher: “Non c’è società, esistono solo gli individui”. Per il futuro non sarebbe rimasto altro compito che espandere questo modello nel mondo tramite la globalizzazione anche come reazione ai falliti modelli di socialismo. Inoltre, abbiamo dimenticato che gli esseri umani sono anche sociali. Essi, oltre al bisogno di pensare alla vita individuale, necessitano di un progetto sociale che colleghi il presente con il passato e il futuro. Il trionfo dell’homo oeconomicus, che ha creato l’illusione di una maggiore libertà e ricchezza per l’individuo, ha invece aperto la strada a un egoismo sfrenato accompagnato dall’impoverimento della maggior parte delle persone e dall’arricchimento di pochi. Questa crescente polarizzazione ha prodotto in Occidente la post-democrazia (Colin Crouch), un sistema in cui il processo decisionale è determinato sempre più dagli interessi di una minoranza assetata di danaro e dal potere dei politici che si stanno rivelando sempre di più semplici gestori degli interessi economici dei pochi, lasciando la maggioranza sempre più atomizzata e sradicata dalla rappresentanza politica

Il malessere di un certo numero di paesi come l’Albania è, nello stesso tempo, retaggio del passato e frutto della post-democrazia, prodotta dal neoliberismo, e della globalizzazione.

“La peggiore” e “la più drammatica” delle crisi. Perché? In primo luogo perché paesi come l’Albania – citando Crouch – sono passati direttamente dalla dittatura alla post-democrazia senza aver conosciuto la democrazia. E ciò, non avviene negli altri paesi già membri dell’Unione europea dove si è cercato di creare la reazione immunitaria al neoliberismo, alla globalizzazione e alla post-democrazia. In secondo luogo, perché le minoranze occidentali al potere agiscono in un quadro molto più controllato dalla legge e dalle istituzioni di checks and balances, mentre l’oligarchia e la criminalità organizzata in Albania agiscono senza alcun controllo. In uno stato totalmente nelle loro mani, le istituzioni non sono altro che il prolungamento del potere economico.

 

Integrazione europea e neoliberismo

Il sostegno degli euroburocrati a favore dei passi in avanti dell’Albania, in termini d’integrazione europea, deriva essenzialmente dal rifiuto di riconoscere i fallimenti che il neoliberismo e la globalizzazione hanno prodotto, sia nel loro territorio, sia nel progetto europeo. Per quanto si sforzino di preservare la narrazione della transizione, in realtà gli euroburocrati non ammettono di essere affetti da una malattia così grave. In questo sforzo, essi hanno in comune con gli autocrati dei Balcani occidentali la necessità di preservare la narrazione della transizione come ideologia del potere. In comune, inoltre, il bisogno di sostenersi a vicenda. A questo modo, enfatizzano la percezione delle minacce e addossano le colpe ai movimenti etichettati come “populisti di sinistra”, “populisti di destra” oppure ai nemici, come la Russia. Così facendo, peraltro, distraggono l’attenzione dai gravi errori che loro stessi hanno commesso in questi ultimi tre decenni.

Fatos Lubonja, scrittore e giornalista albanese