Oltre Agamben, pandemia e trasformazioni sociali

Fotografia di un'opera di Giulio Paolini: la stessa immagine modificata, e ripetuta, costruisce una cornice intorno a un centro di altre immagini simili.
Giulio Paolini, La casa brucia, 1987-2004 . Courtesy dell'Artista e della Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio

Quando un filosofo della levatura di Giorgio Agamben, che ha speso la vita a indagare a fondo le radici della nostra cultura, scende per strada e grida “al fuoco!”, chiunque abbia un minimo di etica e una lingua per parlare (e mi rivolgo prima di tutto agli intellettuali di questa testata) ha il dovere di portare il proprio secchio. Mi occupo di arte visiva e darò il mio modesto contributo.

Agamben sostiene che la caratteristica e la gravità particolare di quest’incendio è di essere apparentemente invisibile; parla di schermi tecnologici, mediatici e medici che si frappongono alla sua visibilità e che proprio questo è il pericolo. Parla di nuovo fascismo. Credo che le circostanze particolari che stiamo vivendo in questi giorni di Covid 19, di divisione netta fra negazionisti e allarmisti (due diverse forme di paura), richiedano una presa di posizione: metterci la faccia. D’accordo sull’esistenza e la pericolosità dell’incendio, dichiaro subito di non esserlo sul fatto che non sia visibile e non da oggi. Ecco perché.

La disillusione

Più di quarant’anni fa ho scelto un nuovo mestiere, buttando a mare quello che avevo fatto nei dieci precedenti. Quest’ultimo era concreto, riguardava l’organizzazione del territorio. Ma era compromesso con la politica e in Italia l’urbanistica, si sa, è il braccio tecnico della corruzione endemica. L’ho scoperto sul campo. Il nuovo mestiere prometteva la libertà di concentrarsi essenzialmente sull’organo visivo, gli occhi (anche se non va esclusa la testa e tutto ciò che ne consegue), e questo mi ha fatto decidere.

 

Opera di Federico De Leonardis composta da cento monitor in un quadrato 10x10 e una carriola che va a fuoco.
Federico De Leonardis, Totem: cento televisori e una carriola di fuoco, 1982, Ferrara, Sala Polivalente
 
L’inflazione dell’immagine

Avevo poco più di trent’anni e mi sono buttato nella mischia fuggendo da quanto avevo vissuto fino allora, ma ciecamente, senza riflettere su quanto mi aspettava. Ahimè, proprio allora si apriva un’epoca che andava inflazionandosi di immagini, fuori e dentro le case, fuori e dentro le città, immagini piatte a due dimensioni (a parte i grandi tralicci per sostenerle) su carta e su schermi di tutti i tipi, digitali o analogici. Quella che all’epoca era una tendenza, anche per la relativa rarità del “dispositivo” (direbbe Agamben), oggi è diventata la regola.

In giro dietro occhiali rigorosamente neri le belle ragazze non fingono più nemmeno di darti un’occhiata. “Non altrimenti / di vergine che il guardo onesto avvalli”, gli occhi sono incollati infallibilmente su un telefonino digitale perennemente acceso dietro a qualche Facebook, Twitter, Linkedin ecc, anche loro piatti e in continuo movimento. Con quelli di ultima generazione (ma sono almeno dieci anni che esistono) il fiume di scatti che finiscono poi a parenti e amici o appunto sui social non si conta che a trilioni.

L’artista visivo 

All’inizio della mia carriera di “artista visivo”, in un mondo ancora non inflazionato da immagini, proporsi di produrre qualcosa di nuovo da vedere poteva sembrare coraggioso: un obiettivo difficile, ma non impossibile. Col senno di poi si è rivelato decisamente idiota. A fermarsi un attimo a rifletterci, il ritmo cardiaco si fa più frequente e avanza una forma di capogiro: siamo tutti un punto in un universo sconfinato, una goccia nel mare, moriremo in questo oceano di immagini. Anche gli amanti dell’opera di Dio, quelli che si estasiano ai tramonti o davanti alle cascate del Niagara sono scomparsi: la natura non interessa più nessuno, interessa solo l’immagine piatta, digitale o meno, della natura. E nell’ossessione, nell’incubo si fa strada un ricordo, un aneddoto significativo. Occhio alla data.

Gli anni felici

Era il 1961, giovani universitari avevamo dato una festa, a Lerici, per raccogliere un po’ di “palanche” e qualche ora dopo la fine della kermesse si annunciava l’arrivo dell’eclissi totale di sole (15 febbraio). Rivivo ancora oggi il brivido giallognolo della natura nei pochi minuti di quell’alba; non era importante guardare la palla diventata nera, bastavano il suo riflesso sul mare e la fuga degli uccelli spaventati. Stanchi per la festa appena finita. Eravamo in pochi ad assistere allo spettacolo. Mi sono rimaste impresse le parole di uno che aveva dichiarato forfait: “me a men vago a leto, a me la mio doman ‘n television” (Me ne vado a letto, tanto me la guarderò domani in televisione). È così che quando arriva uno tsunami ci coglie impreparati con la faccia incollata a uno schermo.

Due dimensioni, una parete bianca

É certo ormai, Agamben, entro poco tempo ci trasformeremo tutti in alieni a due dimensioni.

Ma a pensarci bene Flatlandia* è già stata inventata (da Edwin Abbott, 1884): un complicatissimo marchingegno simbolico, una fantasia euclidea a due dimensioni, in cui cerchi, quadrati e segmenti mettono in scena la realtà, non quella vittoriana dell’epoca in cui fu scritto il libro, la realtà tout court, che per essere descritta non ha bisogno delle tre, a tutti note.

La copertina del libro di Roman Opalka "Il tempo della pittura": una mano che con un pennello intriso di pittura bianca imprime numeri su una superficie.
Roman Opalka, Il tempo della pittura, 1965-2011

Quale insano proposito mi ha preso quarant’anni fa, perché ho abbandonato l’architettura per dedicarmi a costruire qualcosa per gli occhi? Non c’è da uscirne pazzi? La nausea è poca cosa rispetto al pericolo di perdere la zucca. Per calmare i conati di vomito ho trovato una soluzione e mi sento di consigliarla a tutti: mi chiudo in una stanza e guardo una parete bianca, per ore, finché non respiro. E lì, di fronte a quel muro di niente, al nulla che rappresenta, cioè che non rappresenta, ma che è tutto quanto mi aiuta ad annullare il faticoso chiacchiericcio della testa, respiro.

Sia chiaro, anche in questo caso so di non aver inventato niente di nuovo e di non praticarlo nemmeno col rigore con cui andrebbe praticato: Bodhidharma ci è stato nove anni davanti a un muro bianco (prima o dopo essere andato in Cina a diffondere il buddismo?); quando gli veniva sonno resisteva finché poteva e quando non ha potuto più si è tagliato le pupille: voleva assolutamente continuare a guardare il muro bianco, puro nulla, tabula rasa, vuoto della mente, ma soprattutto di immagini. Sesto secolo dopo Cristo.

Bene signori, non aggiungo altro: chi ha orecchi per intender (orecchi ho detto, non occhi) intenda.

A Giorgio Agamben rispondo che è vero, la casa brucia, ma il rogo non è affatto invisibile. Semplicemente è a due dimensioni.

 

un riquadro nero all'interno del quale la scritta THE END, sovrapposta al disegno di un busto femminile semi sdraiato di cui si notano le labbra con rossetto rosso.
Fabio Mauri, The end strillo, 2012, Milano