Gesualdo Bufalino, il tempo sospeso

Gesualdo Bufalino, il tempo sospeso
Gesualdo Bufalino

Temo che Gesualdo Bufalino sia stato un uomo molto malinconico. Un po’ per carattere, non dico introverso ma per quello che leggo su di lui sicuramente discreto, molto discreto per sua propria natura. Eredità probabile di quello che da giovane gli era capitato: ammalarsi di tubercolosi con il ricovero forzato in un sanatorio, prima in quello di Scandiano, siamo nell’autunno del 1944 e dopo in uno della Conca d’oro di Palermo da dove esce guarito nel 1946. Ci racconterà questo drammatico periodo, magistralmente, nel suo primo libro intitolato Diceria dell’untore, pubblicato nel 1981 quando l’autore aveva 61 anni. Il libro vinse il Premio Campiello nello stesso anno, divenendo subito un caso letterario.

Gesualdo Bufalino non lo presenterà mai come un romanzo autobiografico. E d’altra parte la sua esperienza, pur drammatica ma fortunatamente a lieto fine, non fu nel contesto di quegli anni un’esperienza eccezionale, solitaria. Coinvolse purtroppo decine di migliaia di membri della comunità nazionale. Oggi, tutti noi ci siamo abituati al termine pandemia, a causa del Covid ma la tubercolosi per oltre cento anni aveva colpito il mondo intero e fu finalmente vinta solo grazie all’arrivo di medicinali e antibiotici nel secondo dopoguerra. Seminò morte ed aveva cicli mediamente lunghi, molto più lunghi del Covid che imperversa oggi. Non era facile salvarsi, prima degli antibiotici infatti morivano i due terzi degli ammalati in un processo di dolore e sofferenza che durava a volte anni. Chi guariva, come il nostro autore, ne usciva e non poteva essere altrimenti, segnato nel corpo ma soprattutto nello spirito. In molte delle foto che ho potuto vedere nello studio del grande fotografo Giuseppe Leone a Ragusa, che lo ha seguito e fotografato per molti anni ed in molte diverse situazioni, lo vediamo sorridere ed anche, qualche volta, quando è ritratto con i suoi amici Sciascia e Consolo, ridere di gusto.

Portava quasi sempre gli occhiali, e quando le lenti erano trasparenti, era ed è ancora oggi possibile, guardando le foto, leggere il linguaggio dei suoi occhi, uno sguardo ironico, intelligente.

Nel 1939 Albert Camus in un articolo pubblicato sul giornale di Algeri scriveva che “l’ironia continua ad essere un’arma impareggiabile contro chi è troppo potente. Essa completa la resistenza, nel senso che permette non già di respingere ciò che è falso, ma di dire ciò che è vero”.

Uno sguardo sorridente, come spessissimo è possibile osservare sulle facce di molti siciliani, ma pur tuttavia venato sempre da una sottile malinconia, probabile frutto di un languore storico verso una vita immaginata e mai completamente realizzata. Con questo titolo, Languore, il poeta francese Paul Verlaine aveva scritto una poesia che, leggo un commento da internet, “descrive il sentimento di decadenza che accomuna i poeti maledetti e determina il loro rapporto con la realtà, con la vita e con la morte”.

Ed è la morte il tema principale del libro e in qualche modo di tutti gli scritti di Gesualdo Bufalino. Sicuramente dell’altro romanzo che ho letto, Le menzogne della notte pubblicato da Bompiani nel 1988 e Premio Strega dello stesso anno.

Ho appena finito di rileggere Dicerie dell’untore ed è come, l’ho fatto con mia grande soddisfazione, se ripercorrendo la sua scrittura, pagina per pagina, provassi meno disagio di quanto mi fosse capitato di provare nella prima lettura. Il disagio nasceva dalla crudezza del racconto, da alcuni passaggi forse inevitabilmente iperbolici, apocalittici nella loro asprezza, come la pagina dedicata agli ultimi attimi di vita di Marta che muore soffocata nel suo stesso sangue in una cameretta di un albergo, sulla litoranea tirrenica, vicino Palermo, fuori stagione in un’atmosfera desolante. L’immagine visiva che l’autore ci trasmette è potente, e mi ha molto fatto riflettere sulla sua attitudine, mai mal celata anzi addirittura dichiarata come un manifesto dei suoi intenti, in una pagina dello stesso romanzo, di guardare a ritroso, al passato, nell’accumulo della memoria con ossessione.

Nel capitolo XI del suo romanzo possiamo infatti leggere: “Quella domenica 18 agosto è, fra i giorni della mia vita, uno dei tre o quattro che mi recito da cima a fondo, quando voglio cercare di raggiungere l’estasi di rivivermi. Mi spiego: io con il passato ho rapporti di tipo vizioso, e lo imbalsamo in me, lo accarezzo senza posa, come taluno fa con i cadaveri amati. Le strategie per possederlo sono le solite, e le adopero tutte e due. Da principio mi visito da forestiero turista, con agio, sostando davanti ad ogni coccio pesto e ogni anticaglia regale; bracconiere di ricordi, non voglio spaventare la selvaggina. Poi metto da parte le lusinghe, l’educazione, lancio a ritroso dentro me stesso occhi crudele di Parto, lesti a cogliere e a fuggire. Dagli attimi che dissotterro quanti ne ho vissuti apposta per potermeli ricordare! non so cavare pensieri, io non ho una testa forte e il pensiero o mi spaventa, o mi stanca. Ma bagliori invece… bagliori di luce ed ombre; e quell’odore dell’accaduto, rimasto nascosto con milioni d’altri per anni e anni, in un castone invisibile, qua sopra, dietro la fronte… Sento a volte che basterebbe un niente, un filo di forza in più o un demone suggeritore… e sforzerei il muro, otterrei, io che il Non Essere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere. Riessere, this is the question”.

Pagina fondamentale per comprendere, per capire, non il contenuto del libro che alla fin fine è ben chiaro, ma il suo autore Gesualdo Bufalino. Ma su questo punto, la nota che sto scrivendo è impotente ed ho anche l’impressione che lo sono anche i critici letterari o gli storici della letteratura che si sono occupati del nostro autore. Che era anche perverso nella sua ossessione. Noto che il romanzo è strutturato, senza alcuna necessità apparente, in diciassette capitoli, per decisione evidente del suo autore. Il numero diciassette nella cabala napoletana, vorrei evidenziare che il Regno delle due Sicilie, nostro recente antenato andava da Palermo a Napoli, nella Smorfia vuol dire  “a disgrazia”. Sempre da internet ricavo che “una spiegazione dell’accostamento di questo numero alla sfortuna, o, meglio, ad un evento catastrofico, luttuoso, terribile si può trovare nell’antica numerazione latina, quella in cui ad alcune cifre corrispondono delle lettere maiuscole. Il numero diciassette come sappiamo si scriveva XVII. Ed è esattamente questa la numerazione che l’autore utilizza. Ora, l’anagramma di questi caratteri forniva, come possibile soluzione, la parola VIXI cioè vissi, con evidente richiamo al fatto che se il verbo è al passato remoto, vuol dire che ho vissuto, ma ora sono morto. Anche questo indizio, classico di un vero giallista, ci sbatte in faccia il perverso rapporto che l’autore ha con la morte.

Da non confondere con il culto dei morti, così diffuso ancora nella Sicilia contemporanea e che in qualche modo caratterizza la nostra sicilianità. Siamo fra i pochi territori al mondo dove ad ogni ricorrenza annuale si organizzano nelle città, nei villaggi centinaia di processioni funeree a volte gigantesche per il venerdì santo. Dove esiste il più grande affresco (600 x 642 cm) intitolato “Il trionfo della morte”, realizzato a Palazzo Sclafani a Palermo nel 1412 durante il regno di Ferdinando I ancora oggi purtroppo d’autore sconosciuto, ma resta visibile a Palazzo Abattellis, in un allestimento realizzato dall’architetto Carlo Scarpa. “E apparve un cavallo verdastro, il cui cavaliere aveva nome Morte; l’inferno lo seguiva; gli fu data potestà di portare sterminio” (dall’Apocalisse tradizionalmente attribuita a Giovanni evangelista).

Ma il romanzo dei romanzi non sono solo il loro contenuto, ma sono anche il modo in cui sono stati scritti. Ebbene vorrei subito dire che la scrittura del nostro autore è coerentemente forte. Gesualdo Bufalino utilizza la lingua italiana e la sua sintassi con padronanza assoluta. Una scrittura che evidenzia una ricchezza terminologica davvero rara. Segno di una cultura classica profonda, ancorché vasta, una conoscenza della lingua greca e della lingua latina altrettanto rare. Lui stesso, nell’appendice pubblicata nel suo libro Dicerie dell’untore, nell’edizione Bompiani 2018 riporta una sua guida alla lettura del testo dove definisce la lingua utilizzata per scriverlo come: “scelta di una lingua archeologica, defunta obbediente ad un disegno di restaurazione signorile, di un recupero del registro alto…!!”, guida alla lettura che ricalca con poche ulteriori integrazioni le Istruzioni per l’uso pubblicate a lato della prima edizione Sellerio nel 1981 in una tiratura limitatissima (100 esemplari) distribuita agli amici. Sono istruzioni preziose perché meglio ci fanno capire lo scritto messo insieme e le intenzioni dell’autore. Come si usa dire, anche le più recondite.

Di ogni parola utilizzata nella sua scrittura Gesualdo Bufalino conosce la sua etimologia ed il suo perfetto significato. Non si tratta dunque dell’uso recuperato di una lingua classica ma per noi comuni lettori come ho già detto di una lingua rara. Che è un risultato, non come si può pensare, naturale conseguenza della sua vasta cultura, ma anche di un lavoro di riscrittura e rilettura infinita che l’autore usa come suo normale metodo. Diceria dell’untore è stato riscritto negli anni almeno sette volte, come testimonia la donazione dello stesso autore, delle stesure che si sono succedute, al Fondo Manoscritti di Autori Moderni e Contemporanei dell’università di Pavia.

Ma prima di proseguire, vorrei subito chiarire che quello che sto scrivendo è una nota di un lettore siciliano che si è dato il compito di scoprire per se stesso, attraverso la lettura o rilettura i grandi autori siciliani e, Gesualdo Bufalino, è naturalmente fra questi. Il rapporto che c’è fra questi, le loro opere è il concetto di modernità.

Un’ultima riflessione vorrei farla sulla totale assenza negli scritti di Gesualdo Bufalino di una visione non dico proiettata al futuro ma almeno al presente. Il solo accenno che fa al suo romanzo riferito al vissuto dei protagonisti è contenuto in poche righe che di seguito riporto: “così non ci spaventò piombare, dopo qualche chilometro, nel mezzo di una schiera di contadini e contadine in marcia come informavano i cartelloni branditi verso un’occupazione di terre, nel feudo del barone Basilio Trigana. Dietro un cantiere a cavallo, in abbigliamento per metà militare”.

Forse è un po’ poco, troppo poco. È come se le sue storie e i suoi racconti galleggiassero per aria, sono così come il loro autore ha voluto, collocate in un tempo che resta inevitabilmente sospeso.

Dello stesso autore: Leonardo Sciascia, una rivisitazione