Bolivia, autoritarismo e prospettive

Una folla di persone manifestano contro Morales, alla presenza delle forze dell'ordine

Il 20 ottobre scorso, a La Paz non c’era nessuno per strada: tutti quanti incollati davanti ai televisori per ascoltare i risultati della giornata elettorale. Sulla TV di Stato gli  analisti politici si rallegravano per la grande affluenza alle urne e salutavano quella che in genere è considerata una fiesta democratica. Ciò fa un po’ sorridere se si pensa che in Bolivia il voto è un dovere legale e che l’astensione prevede come pena l’impossibilità di accedere al proprio conto corrente per almeno tre mesi.

Sono circa le 20:00 quando vengono pubblicati i primi risultati tramite il Trep (Trasmissione di Risultati Elettorali Preliminari). Una proiezione sull’87,5% dei voti da il Presidente uscente Evo Morales del Mas (Movimiento al socialismo) attorno al 45,6%, mentre Carlos Mesa, suo principale oppositore di Comunidad Ciudadana, nonché già Presidente dal 2003 al 2005, intorno al 38,2%.

Un paio d’ore più tardi arrivano le prime dichiarazioni di Morales dal Palacio Quemado, sede del Governo: “Ganamos una vez más, son cuatro elecciones consecutivas que ganamos, es histórico e inédito” (“Vinciamo un’altra volta, sono quattro elezioni consecutive che vinciamo, è storico e inedito”), dichiarazioni da molti considerate premature. Poi arriva l’interruzione del computo preliminare da parte del Tse (Tribunale supremo elettorale), che inizia il conteggio dei dati ufficiali.
Per le seguenti 24 ore non viene più trasmesso al pubblico nessun dato elettorale. Le opposizioni giudicano il quadro molto strano e cominciano a scaldarsi, primo fra tutti Carlos Mesa, che chiama i suoi a convergere nella capitale attorno all’edifico dove si sta concludendo il conteggio ufficiale. Qualcuno già grida al fraude, all’imbroglio, alla truffa, alla frode elettorale insomma. Gli oppositori di Morales sono separati dai suoi sostenitori da un cordone di agenti di polizia, la situazione è parecchio tesa. Si intonano cori denigratori e insulti da entrambi i lati, quando infine, intorno alle 23:00 del 21 ottobre, il Tse rivela i risultati ufficiali scrutinati sul 95% circa dei voti: 36,8% per Mesa, 46,9% per Morales. Gli oppositori del presunto vincitore si infuriano e la polizia inizia la sua azione di contenimento: vengono sparati lacrimogeni e uno di questi colpisce in piena fronte il Rettore della Umsa, (Universidad Mayor de San Andrés) Waldo Albarracín, sceso in piazza assieme all’opposizione, in quella che dicono essere una lotta contro una dittatura che dura ormai da 13 anni. È l’inizio di giorni di forte tensione, che produrranno 2 morti, 140 feriti e 190 arrestati.

Per comprendere come si sia arrivati a questo punto è necessario fare un passo indietro e ripercorrere quella che è stata l’ascesa al potere del primo Presidente indio nella storia del Sudamerica. Ex leader del movimento sindacale dei cocaleros, coltivatori di coca della regione del Chapare, Evo Morales giunge alla guida dello Stato boliviano con le elezioni del 2005, convocate anticipatamente in seguito alla crisi politica e sociale che affliggeva il Paese dopo i governi di Gonzalo Sanchez de Lozada e Carlos Mesa. allora infuriava la cosiddetta “guerra del gas”, un intenso conflitto interno tra il governo e la società civile, contraria all’esportazione delle risorse naturali in Messico e Stati Uniti attraverso i porti cileni. Con queste premesse, l’ascesa al potere di Morales è stata preceduta da un rapido consenso, generato soprattutto da una forte retorica antiamericana, fomentata dall’accesa rivalità che esisteva fra Morales e l’ambasciatore degli Stati Uniti Manuel Rocha. In questo modo il Mas si garantì l’appoggio delle fasce popolari, indigene e contadine del Paese, arrivando così al governo nel 2006. La sua vittoria venne celebrata con un rito indigeno nel territorio tihuanaco, poco a ovest di La Paz, e Morales venne incoronato Apu Mallku, capo supremo del popolo indigeno delle Ande, come a simboleggiare la fine di 500 anni di colonialismo.

In politica estera cercò subito l’appoggio degli altri governi socialisti, trovandolo in Venezuela e Cuba. In politica interna iniziò quello che da lui stesso venne definito proceso de cambio, contraddistinto da tre elementi fondamentali: la nazionalizzazione degli idrocarburi, le politiche sociali e la riforma costituzionale.
Il primo è stato oggetto di diverse controversie, suscitate sia dagli oppositori moderati che dalla sinistra radicale, che considera il processo di nazionalizzazione mai realmente compiuto. In effetti i governi Morales non hanno mai proceduto all’esproprio delle raffinerie, preferendo rinegoziare i contratti nazionali. Ciò, secondo i suoi sostenitori, avrebbe dato il via al decollo dell’economia del Paese. Sebbene non si tratti evidentemente di una nazionalizzazione vera e propria, gli esponenti del Mas continuano a chiamarla in questo modo, sostenendo che questa abbia contribuito a liberare la Bolivia dalla dipendenza dal Fondo Monetario Internazionale e abbia consentito al governo di pagare le politiche sociali che aveva in mente.

Il secondo punto del proceso de cambio riguarda, appunto, queste ultime. Sarebbe un eufemismo definire la Bolivia un Paese “difficile”. Storicamente considerata una delle nazioni più arretrate del Sudamerica, questa si è quasi sempre distinta tra le peggiori posizioni negli indici di povertà e alfabetizzazione. Morales delinea il suo progetto di sviluppo sociale intorno al concetto Aymara di Suma Qamaña, ossia il ben vivere, la buona vita, concetto di matrice indigena che descrive l’equilibrio spirituale e materiale dell’individuo e la sua relazione armoniosa con tutte le forme di vita. In questo contesto, gli obiettivi dichiarati erano la lotta all’analfabetismo e alla povertà. La prima venne combattuta attraverso gli aiuti degli amici esteri, che inviarono risorse economiche e professionali nel territorio boliviano e ricevettero giovani colombiani nelle loro Università. Per quanto concerne la povertà, invece, il governo Morales nel 2009 incrementò lo stipendio minimo del 50% e spostò l’età pensionabile dai 65 ai 58 anni, nonostante gran parte dei boliviani lavorino attraverso un’economia informale. Queste azioni furono rese possibili dalla riforma costituzionale, terzo elemento del proceso de cambio. Questa vide la luce dopo 3 anni di lavoro, dal 2006, anno di formazione dell’Assemblea costituente, al 2009, quando venne approvata attraverso un referendum costituzionale vinto con il 63% dei consensi. La riforma fu ampia e profonda e tra le novità più importanti introdusse la possibilità dell’elezione diretta del Capo dello Stato, il divieto di privatizzazione delle materie prime boliviane, l’introduzione di un tetto di 5.000 ettari per le proprietà fondiarie e il diritto per i cittadini indigeni di avvalersi di una propria legislazione autonoma. Da quel momento la Bolivia cominciò a definirsi uno Stato plurinazionale.

Si succederanno poi le rielezioni consecutive di Morales: tre mandati consecutivi e oggi se ne profila un quarto, con gli oppositori che gridano alla dittatura e ai brogli e i sostenitori che a loro volta li accusano di ordire un colpo di Stato. Morales è ancora un leader molto amato e popolare in Bolivia, soprattutto tra le fasce più povere della società. Eppure, la Costituzione, scritta e voluta da lui stesso, prevede chiaramente che nessun presidente possa ricandidarsi per più di due volte. Le accuse di autoritarismo e personalizzazione del potere si concretizzarono soprattutto quando il Presidente indisse un referendum con il quale la popolazione era chiamata a pronunciarsi in merito alla possibilità di una sua terza candidatura. Vinse il no ma di poco, quel tanto che bastò a Evo per fare appello alla Corte costituzionale. Questa decretò che proibire la candidatura a Morales avrebbe leso i suoi diritti civili e politici e, soprattutto, che la riforma costituzionale non poteva avere effetto retroattivo: di conseguenza la terza candidatura divenne di fatto la seconda. Due settimane dopo la proclamazione dei risultati elettorali, la Bolivia è ancora in stato di agitazione. Proseguono i blocchi stradali e gli scontri tra sostenitori e oppositori del Mas. Nel frattempo, sono emerse accuse e fatti a metà tra il comico e il grottesco: voti attribuiti a persone decedute da decenni, informatici che affermano di essere in possesso di prove schiaccianti del fraude e che dicono di aver subito minacce, infine l’elicottero di Morales e del suo staff costretto a un atterraggio di emergenza in seguito a un guasto (non è chiaro se per manomissione o per malfunzionamento).

Carlos Mesa intanto ha consultato il parere dell’Osa (Organizzazione degli Stati Americani) in merito alla trasparenza delle elezioni e quest’ultima ha espresso la propria preoccupazione in merito, consigliando vivamente di procedere in ogni caso al ballottaggio. Alla preoccupazione dell’istituzione, hanno poi fatto seguito quelle di Unione Europea, Brasile, Argentina e Stati Uniti. Dal canto suo, ironicamente, Morales ha rispedito preoccupazioni e consigli al mittente, invitando a rispettare la Costituzione e dichiarando: “Si se prueba el fraude, vamos a la segunda vuelta” (“Se si provano i brogli, andiamo al ballottaggio”). Il Mas, comunque, ha accettato il riconteggio da parte dell’Osa e, però, Comunidad Ciudadana lo ha sorprendentemente rifiutato, a causa di presunti accordi poco chiari tra il Governo e la Osa stessa, provocando così, di fatto, che il baricentro dell’opposizione si spostasse da Carlos Mesa, centrista, a Fernando Camacho, portavoce del Comité Pro Santa Cruz, movimento civico notoriamente conservatore, ultracattolico e militarista, che ha preso al volo l’occasione per amplificare aggressivamente il discorso che considera la vittoria di Morales frutto di brogli e i suoi governi una vera dittatura. Al momento è difficile prevedere gli sviluppi della situazione. Il Paese sembra polarizzato, spaccato in due e l’opposizione è, a sua volta, ancora più frammentata. Qualunque sia il responso dell’Osa, è prevedibile che ci saranno sempre parti sociali che si opporranno ad esso. È probabile che la tensione prosegua per mesi.

La Bolivia, durante i 13 anni dei governi Morales, senza dubbio ha visto uno sviluppo sorprendente, assestandosi come una delle economie in più forte crescita del Sudamerica, riducendo il tasso di povertà dal 38% a circa il 18%, realizzando un PIL in aumento di circa il 5% e un’inflazione ferma all’1,8%. Nel 2009, l’Unesco ha dichiarato il paese libero dall’analfabetismo. Tutto questo non è successo per caso ed è ragionevole pensare che abbia una diretta relazione con i 13 anni di socialismo indigeno di Evo Morales e del Mas. Il leader indio ha servito la causa del popolo durante il suo lungo governo, eppure è doveroso sottolineare come sia arrivato il momento, e in realtà già da tempo, di nominare un erede politico. La cosa per ora non sembra essere in programma, ma se ciò non accadrà le accuse di autoritarismo si legittimeranno da sole, e con sé potrebbero portare l’aspro vento della reazione. Fascista o capitalista che sia.