America first, ma l’UE è un osso duro

Immagine di Trump con i capelli rossi e con la mano rossa alzata urla avanti popolo.
Elaborazione grafica di Riccardo Stefanelli
Immagine di Trump con i capelli rossi e con la mano rossa alzata urla avanti popolo.
Elaborazione grafica di Riccardo Stefanelli

Sullo sfondo del panorama internazionale incombe una nuova recessione dell’economia americana, prevista nell’arco di due o tre anni da tante parte degli economisti. Ed è verosimile che coinvolgerà anche l’Europa, sicché collaborare sarà fondamentale. Ma andiamo indietro un momento.

Novembre 2016. Straripante di gioia per la sua imprevedibile elezione a 45° presidente degli USA, Trump incomincia a incontrare i leader stranieri. Fra i primi, guarda caso, l’inglese Nigel Farage, che da tempo si batte come un leone per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il grande Donald ne è entusiasta, tanto che dichiara di volerlo come ambasciatore di Londra negli USA. Brutto segno. Poi arrivano, in un crescendo beethoveniano, le picconate alla tradizionale amicizia USA-Europa. Sì, perché anche le grandi amicizie possono finire, o almeno allentarsi, se vengono meno le circostanze che le hanno generate. È il caso della NATO. A che  serve se quando deve intervenire è in realtà l’esercito degli Usa che si accolla il 95% delle spese, dei morti, e dell’impopolarità internazionale? In più, molti Stati non versano quel 2% del loro bilancio che, stando ai patti, dovrebbe sovvenzionare l’organizzazione. Perfino Obama si era lamentato. Non sono più i tempi della guerra fredda e ai russi, non più comunisti, certamente non passa per la testa di attaccare l’Europa. E poi, anche il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) va ridiscusso, rivisto alla luce degli interessi economici americani. Il presidente della Commissione Europea Juncker e il presidente del Consiglio Europeo Tusk gli scrivono a quattro mani una lettera, resa pubblica, in cui gli ricordano che gli impegni presi vanno rispettati. Ma quali impegni? E presi da chi? In nome di America first, Trump fa uscire gli USA dal Trattato di Parigi del 2015 sul clima, annulla l’accordo sul nucleare con l’Iran, riproponendo le sanzioni, e finisce per attaccare direttamente l’UE, affermando che è il competitore economico più pericoloso per gli USA. Tusk non può far finta di niente e risponde a muso duro che l’amicizia fra Stati Uniti e Europa è un dato storico e chi la mette in discussione diffonde fake news. Pesante, ma Donald è uomo di spirito, pragmatico. Nicchia e continua a flirtare con i partiti euroscettici, mentre il suo segretario di Stato Mike Pompeo e l’ambasciatore americano a Bruxelles Gordon Sondland criticano la lentezza burocratica dell’Unione. Poi si passa alle minacce: tariffe protettive su importazioni di acciaio europeo, dazi sulle auto tedesche. Lui dice che gli USA ne importano milioni, ma non è vero: nel 2018, 354 mila  Mercedes e 817 mila BMW. Trump accusa l’europea Airbus di usufruire di aiuti di Stato da Germania, Francia e Spagna, mentre la statunitense Boeing compete lealmente con la rivale. E poi la web tax, cioè la tassa – di cui si discute ancora – che colpirebbe i colossi americani del web Google, Facebook e Amazon. Ma i numeri originati dalle rilevazioni della stessa agenzia americana che si occupa di calcolare l’import Usa, l’Office of the United StatesTrade Representative gli danno torto: circa 557 miliardi di dollari di merci arrivano in Usa dalla Cina e solo 179 viaggiano in direzione contraria.https://ustr.gov/. Vero è che nei rapporti USA-UE l’import americano è di circa 683 miliardi contro un export di 574, ma il vero problema resta il Dragone. Ad ogni buon conto ogni volta che Washington minaccia dazi, la Commissione Europea compila un elenco di contromisure da applicare all’export USA nel vecchio continente. Qualche accordo di rilievo, però, va in porto. 2 Agosto 2019. Stati Uniti e Unione Europea a Washington hanno firmato un’intesa che permette agli allevatori americani di triplicare le loro esportazioni al di là dell’Atlantico, completamente esenti da dazi nei prossimi sette anni.  Se a ciò aggiungiamo l’impegno precedente, preso dall’Unione, di acquistare dagli USA più soia e gas liquefatto, Donald può sbandierare questi risultati in vista della sua rielezione. Ciò, comunque, si inquadra nella logica, concordata il 25 luglio 2018 fra Donald Trump e Jean-Claude Juncker alla Casa Bianca, di puntare a un regime di dazi zero per i beni industriali (fatta eccezione per le auto). Un cammino non facile, ma non impossibile, che scongiurerebbe un disastroso neoisolazionismo USA. Ma ecco che intanto si fa strada la recessione di cui ho detto all’inizio.