Il vaccino e l’eccellenza dell’industria farmaceutica italiana

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Nei giorni in cui il Coronavirus ha scatenato una vera e propria pandemia mondiale, mentre tutti si chiedono cosa succederà e quali saranno gli effetti di questo cambiamento epocale, ci sono specialisti e imprenditori italiani che stanno lavorando senza sosta per trovare una soluzione, che sia un vaccino o una medicina: è la nostra industria farmaceutica.

Pochi lo sanno, ma l’Italia ha la prima industria farmaceutica in Europa, una vera e propria eccellenza di cui si parla ben poco, visto che spesso l’industria farmaceutica è vista con diffidenza e nel segno del complottismo.

Sono ore molto calde nei laboratori farmaceutici italiani, così come nel resto del mondo, ma il nostro Paese ha una posizione di assoluta leadership. Diremo la nostra nell’elaborazione di un farmaco contro il COVID19, ci sono tutti i presupposti. Tant’è che l’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, ha dato l’ok a una sperimentazione partita dall’ospedale di Napoli. Essa è votata a capire se possiamo, qui in Italia, arrivare ad un farmaco contro il virus che ci sta trattenendo tutti, o quasi, nelle nostre case. Poco più distante da Napoli, a Pomezia, un’azienda, la IRBM, sta lavorando alacremente in questa direzione in una collaborazione con l’Università di Oxford, come già fece nel 2014, nella circostanza del virus Ebola. Ma sono in tutto 14 le aziende italiane che stanno lavorando per realizzare un vaccino, partendo da già 35 prototipi Made in Italy (in tutto il resto del mondo sono una decina).

Tutto questo percorso, che speriamo porterà presto ad un risultato tangibile, nasce davvero da lontano. Il Bel Paese da secoli è culla dell’industria del farmaco. Nel Seicento nascevano le prime botteghe “speziali”, nate dalla riscoperta dei testi classici riportati in auge in epoca di Rinascimento. Erano soprattutto testi di provenienza monastica che avevano elaborato tutto il patrimonio classico di conoscenza sui rimedi naturali alle malattie. È il caso degli scritti di Dioscoride (De materia medica) o di Plinio il Vecchio (Naturalis historia). Ogni monastero medievale aveva una propria farmacia. Alcune di queste resistono ancora oggi, come quella celeberrima di Camaldoli, il Monastero benedettino a confine tra Toscana ed Emilia-Romagna, fondato oltre mille anni fa.

Tutto il sapere farmaceutico antico trasmesso dai monaci e riscoperto nel periodo umanista è stato poi elaborato nelle università italiane, le prime ad avere una specializzazione in questo settore già nel Settecento. Così è stato a Venezia, Bologna e infine a Padova, in cui ancora oggi sono reperibili i testi dei docenti che a inizio Ottocento raccontavano del passaggio dalle “cucine medicamentarie” alle “farmacie”, e gli stessi studenti da “meccanici lavoratori” a “dotti artisti della scienza”. Fu così che i farmacisti che uscirono dalle università diventarono degli artigiani del farmaco, ognuno apriva una sua farmacia, nel periodo tra Ottocento e Novecento, fino a quando queste piccole realtà sparse per l’Italia divennero delle vere e proprie industrie. Ad esempio, la Menarini di Firenze, che ad oggi ha più di 100 anni di storia, oppure la Angelini di Ancona che attualmente produce l’Amuchina, mai tanto nota come in questo momento storico. Merita dire che l’azienda ha lasciato invariati i sui prezzi di vendita anche se il valore dell’unguento in quest’ultimo mese è aumentato dell’oltre 500%, con ingiustificati rincari al dettaglio a cui Angelini è totalmente estranea.

Oggi l’industria farmaceutica italiana è sempre più green e sempre più ad alto tasso di capitale umano. Ingaggia tanti ricercatori anche stranieri provenienti dalle migliori università del mondo. Negli ultimi 10 anni l’export è cresciuto del 110% mentre le emissioni di gas sono scese del 70%. Assieme all’industria alimentare, a maggior ragione in questa fase di crisi, rappresenta il settore che più sta trainando il nostro export nel mondo, un alfiere del Made in Italy.

Ma parliamo solo di business o la farmaceutica italiana ha anche dei risvolti artistici? Ovviamente sì, perché l’arte, è espressione estetica della storia, e di storia il farmaco italiano ne ha molta. Ad esempio molto rilevante è il patrimonio di vasi e maioliche che l’arte italiana deve alla nascita degli speziali medievali e rinascimentali, cose decantate da Gabriele D’Annunzio. Nel Seicento i vasi e i contenitori di farmaco in Italia, lontani anni luce dagli attuali blister, sono opere d’arte della ceramica a contenuto sacro, con raffigurazioni di santi e simboli religiosi. L’obiettivo era infatti di rassicurare chi andava ad acquistare il medicamento, dando rilievo all’effetto taumaturgico dello stesso. Scienza e fede insieme. Pregevoli esempi arrivano da Teramo, dalla cosiddetta “Scuola di Castelli” e da Napoli, presso le farmacie della Basilica di San Domenico e nella Certosa di San Martino. Ma anche pregi più “laici” come gli arredi a Palermo nella Antica Farmacia “Salem” in piazza Beati Paoli. Dopo il Settecento, sia sui vasi che sui mobili delle farmacie, appariranno i “brand”, ossia le firme degli speziali. Scienza e marketing, rudimentali.

C’è poi tantissima farmacia nella letteratura italiana, dall’immancabile Decamerone di Boccaccio, in questi giorni tanto richiamato, fino ai “Malavoglia” di Verga, senza dimenticare Trilussa, che lascia un tocco di esoterico alla farmaceutica nel suo “La ricetta Maggica” (sic). Ma non manca la musica, da “Lo Speziale” di Carlo Goldoni alla “Bohème” di Ruggiero Leoncavallo. E oggi? C’è collegamento tra arte contemporanea e industria farmaceutica. Un esempio è l’Opificio Golinelli, a Bologna, tanto voluto da Marino Golinelli, imprenditore, che quest’anno compie 100 anni e che ha fondato l’azienda farmaceutica Alfasigma: uno spazio di quasi 1 ettaro che offre mostre e opere d’arte le quali sono in connessione con scienza e tecnologia.