Roberto Barni è uno di quei creatori (come Gérard Garouste in Francia o Martin Lupertz in Germania) che valorizzano soprattutto la loro indipendenza mentale. Essi hanno in comune solo l’idea di trovare nuove basi per la figurazione, senza prendere in considerazione il ritorno al neoclassicismo (quello che ha tentato di fare Maurizio Calvesi), che trova anche alcuni seguaci. Quindi nulla li collega l’uno all’altro, a parte il fatto che hanno preso la decisione di rompere con un certo orientamento della “tradizione del nuovo”.
Roberto Barni nasce a Pistoia nel 1939. Questa città, prima etrusca, poi ligure, poi romana (Pistorium), ha creato le sue accademie e i suoi circoli accademici nel settecento. Tra il 1720 e il 1725 il pittore Giovanni Domenico Ferretti vi realizzò diversi importanti progetti pittorici. Pistoia non ha mai smesso di essere un fulcro nel gioco economico, letterario e artistico del Ducato di Toscana. Quest’ultimo, rimasto uno dei modelli dell’estetica dei secoli passati, è il frutto della sua storia tormentata e complessa che gli ha conferito una speciale sensibilità. E la cui lingua è la fonte principale dell’italiano moderno.
Ma il fatto che Roberto Barni sia toscano fino in fondo all’anima non lo rende un piccolo maestro di provincia. Anzi. La cultura toscana è all’origine di una curiosa commistione di provincialismo e universalismo, che è uno stimolante per lo spirito perché l’universale prevale sul locale. L’ambizione è stata quella di ricreare regioni segrete in cui le verità, non imperative, possono essere postulate.
Roberto Barni non ha seguito il cursus tradizionale dei giovani che aspirano a fare una carriera artistica. Tuttavia, ha iniziato a esporre in gallerie dal 1960. Nel 1963 ha ottenuto una borsa di studio dal comune di Firenze e sperimentato diverse tecniche. Nel 1965 ha partecipato ad una grande mostra collettiva, Revort I, alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo. Ha scritto il suo necrologio nel 1972, in un momento in cui ha realizzato grandi calendari. È diventato sempre più appassionato della storia del paese in cui è nato, ma ha un’attrazione speciale per l’arte rinascimentale. È il Rinascimento ad ispirarlo per tutta la sua carriera ma senza limitarlo nel quadro ristretto della pittura o della scultura di questo intenso periodo. E senza rianimarlo, come alcuni pittori accademici hanno cercato di fare.
L’unico artista a cui potrebbe essere paragonato è Giorgio De Chirico, col quale non ha condiviso nulla se non l’amore per l’arte dei suoi illustri predecessori. L’ambizione di Barni è quella di ricreare scene che possiedano lo stesso tipo di potere evocativo, ma introducendo forme stravaganti appartenenti solo alla sua immaginazione. Non è un essere malinconico ostile a tutta la modernità. Intende creare un Rinascimento sognato, che esiste solo nel suo lavoro e che non è mai del tutto privo di un certo umorismo o addirittura di un sogno. Tutto è irreale e prodotto da associazioni spesso giocose. Ciò che è innegabile è che l’umano è al centro delle sue preoccupazioni: lo pone in posture di ordini diversi e in un ambiente altamente fantasticato, ma che gli conferisce una dimensione superiore, anche se a volte legata a scherzi visivi.
Vede l’essere con amore ma anche con un pizzico di derisione. Sarebbe quindi inutile parlare di sublimazione all’interno dell’universo. È sempre leggermente “fuori mano”. Anche quando raffigura gli uomini vestiti con armature pesanti, non sembrano mai guerrieri formidabili, ma piuttosto attori che plagiano tali uomini in armatura dal tempo delle guerre tra comuni o contro regni stranieri. Sono più vicini ai pupi dei piccoli teatri di marionette siciliani di un tempo, che raccontavano le gesta e i gesti dei paladini di Carlo Magno. Non sono lì per evocare guerre sanguinose o terribili assedi, ma piuttosto per mostrare che, nell’uomo degno di questo nome, vive un guerriero audace.
Questa non è una manifestazione dello spirito di battaglia, che è il destino di ognuno di noi: dobbiamo combattere questa lotta per inventare il mondo. Alcuni potrebbero ricordare angeli o arcangeli o ancora troni che sono determinati a combattere il male con una spada o una lancia nelle loro mani. La spiritualità è anche una forma di battaglia, che può assumere varie forme. Questi personaggi imponenti non ci minacciano né evocano quei famosi condottieri che hanno segnato la storia di questo Rinascimento, che era lontano dal promulgare la pace sulla terra. Le loro avventure non sono vittorie al termine di scontri violenti, ma intrattenimenti che possono assumere aspetti seri e severi. Dopotutto, si tratta sempre di gestire una campagna che può essere intellettuale o artistica.
Il vero soggetto di tutte queste scene rimane un enigma. La definizione della figura, l’arredamento, la natura, l’architettura non ci forniscono il significato di questa messa in scena. È lì per impressionarci, non c’è dubbio, per affascinare, ma mai per confrontarci con una storia specifica. Nessuna favola, nessuna evocazione, nessuna narrazione nascosta, ma una presenza che ci porta fuori dalle nostre idee su ciò che ci ha preceduto. L’amore per la storia si esprime qui in un modo che è allo stesso tempo profondo e divertente. La verità che emana da esso è l’apparizione di forme emblematiche ma sempre impenetrabili.
Barni ha sentito anche il desiderio di comporre eventi mitologici, come nel caso di Centauri temerari (1984): ha pensato ad uno scontro tra due centauri di colore verde. Il primo, con un volto femminile, si erge sopra il suo avversario che è a terra in un campo di rovine e sovrasta un centauro maschio con la testa rasata: manipolano grandi fiamme che sgorgano dalle loro mani. L’universo intorno a loro è blu. Nessuno conosce i loro nomi e da quale narrazione sono emersi. Altri dipinti mostrano villaggi semidiroccati o la figura di Sisifo, che porta il peso di una città rossa (un altro dipinto rivela una cariatide che, inoltre, tiene sul dorso una città rossa). E poi ci sono le strane composizioni in cui tutti i personaggi sono sormontati da figure geometriche. Il dio Dioniso appare in una tela in una sorta di turbinio dove gravitano mille oggetti. In breve, l’artista desiderava trasformare le figure della mitologia antica e attribuire loro un aspetto fino ad allora sconosciuto. È la sua intima mitologia che ha deciso di rivelarci.
Insomma, Roberto Barni ci porta nel suo microcosmo segreto e ci conduce fuori strada, senza intenzioni melanconiche, ma con la preoccupazione di farci scoprire altri spazi e altri tempi. La sua antichità è un sogno che stupisce e rimane molto intrigante. Non ci mette in una situazione imbarazzante, ma ci costringe a rifiutare i concetti sull’arte della pittura che ci hanno seguito fino ad allora. Genera una bellezza sconosciuta e ci fa avvicinare a nuovi orizzonti che portano in sé reminiscenze lontane – quella della grande pittura antica, ma in una nuova prospettiva. Questa bizzarra commistione di antico e moderno è il suo marchio di fabbrica ed è un invito a intraprendere nuovi piaceri. L’occhio e la mente devono abituarsi alle sue aspirazioni che non sono progettate nell’ottica del grande stile, ma che ce le ricordano. Un viaggio a Citera, infine, per assaporare le delizie sconcertanti della sua pittura, che regala sempre piacere mentre si snoda su uno sfondo non sempre allegro: abbiamo perso il senso di questo desiderio di godimento che tanto abitava i nostri precursori.
La sua mostra personale all’Open Art Gallery di Prato è prolungata fino la fine di marzo.