“Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia”, recita all’incirca così un antico proverbio africano. I 92 anni di Vittorio Gregotti, forse, erano ancora “una biblioteca viva” per il mondo dell’architettura e della cultura in generale. Lo ipotizzo perché l’ho incontrato nel novembre 2018 su un vaporetto a Venezia e l’ho salutato, come se anche lui potesse riconoscermi: entrambi ci spostavamo fra le postazioni della Biennale Architettura di quell’anno.
In realtà, lo avevo conosciuto a Palermo, io studentessa al secondo anno e lui personaggio-icona, affascinante figura con il maxi-cappotto scuro che gli stava al passo con il vento in poppa,tanto deciso il suo di passo fra uno stormo di aspiranti docenti.
Lo avevo contattato credo nel 2011 per invitarlo a Siracusa in tandem con Emanuele Severino col quale avevo trascorso alcuni giorni in Alto Adige, ma, ahinoi, anch’egli appena scomparso. Mi affascinava questo triangolo costituito da loro due e da Umberto Galimberti, diretto ed indiretto, contestuale e in differita, su un grande interrogativo: il ruolo della Tecnica, del suo apporto e del suo peso nel concepimento dell’architettura; in realtà, nel concepimento di ogni ondata di ulteriori orizzonti della scienza e quindi del “sapere”. La Tecnica, traduttrice e soluzione dei problemi individuati dai concetti, declassata ad ancella trascinata dalla voracità di una tecnologia asservita al mercato. La malattia della moglie di Severino fece rinviare l’evento tanto da renderlo inattuale.
Nella visione che me ne sono fatta, Gregotti è stato, è e resterà a lungo un grande maestro di Architettura e di tutto quel substrato, contesto, spessore culturale a largo spettro che, poiché “tutto si tiene”, è materia che l’Architettura reifica di continuo.
Ricordo e considero capisaldi ineludibili i suoi scritti, le sue lezioni, il periodo d’oro della sua direzione di Casabella, dall’82 al ’96, quello dell’Architettura della Modificazione, quello dell’Internazionalismo Critico e di tanti altri temi-svolta.
Ricordo di aver letto, riletto e fatto leggere (o tentato di far leggere) Il territorio dell’architettura, perché pochi come lui ne spiegavano la natura, il “materiale” di cui è fatta.
Ricordo, stranamente, però, che mi precipitai a leggere I Buddenbrook di Thomas Mann, perché da uno dei tanti saggi di Gregotti avevo capito che, come lui, anch’io ci avrei trovato tanto. E fu così. Eppure il freddo Thomas Mann di Morte a Venezia, di quel trattatello di estetica ineccepibile ma scostante, non mi ricordava suggestioni seducenti oltre il dominio del concetto astratto.
Ho visto e visitato e studiato architetture di Vittorio Gregotti e confesso, forse in difetto, che solo tre o quattro mi hanno conquistato: il centro Culturale di Belem vicino Lisbona; l’imponente progetto per l’Università della Calabria, macroscopico ridisegno di un sito naturale imbrigliato da una geometria permeabile e conformante; un complesso di edilizia sovvenzionata nell’Italia centrale, improntato ad una sorta di “contestualismo critico”, dallo sfumato sapore neo-romanico. Non posso affermare, né mi interessa molto farlo, che Gregotti come architetto fosse un poeta. Ma che sia stato in grado di stimolare in una grande quantità di architetti il pensiero problematico, filosofico e poetico intorno all’Architettura, questo lo affermo senza alcun dubbio.