Dall’Umanesimo, il progresso
Il concetto di progresso iniziò a fare capolino nelle discussioni fra intellettuali nell’epoca umanistica. L’uomo faber fortunae suae fu uno dei principi – rivoluzionari in un certo senso – che si affermarono nel corso del Cinquecento e dei secoli successivi grazie alla poderosa espansione colonialistica europea che misurava tutta la sua superiorità tecnica rispetto ai popoli che ad essa si sottomettevano senza potere fare nulla di diverso.
Un interrogativo cruciale
Nel corso dei tempi fino all’epoca attuale la parola è diventata sinonimo di bene o almeno di benessere, tanto che sembra un anacoluto parlare di progresso negativo. Tuttavia, vorremmo porci il problema se esiste soltanto un progresso per così dire materiale, oppure è lecito parlare anche di progresso morale, di progresso che trasformi l’uomo in una certa misura piccola o grande.
Progresso e società
Da una parte se osserviamo lo sviluppo della civiltà ci appare ovvio che l’abolizione della schiavitù alla fine del mondo antico – che poi rinacque, però con la sottomissione di milioni di persone in epoca coloniale – ci fa pensare a un significativo cambiamento nel rispetto dell’altro. E lo stesso si potrebbe dire degli infanticidi, delle torture, delle carestie provocate, dei crimini contro l’umanità, dei genocidi tentati o realizzati, ecc.
Progresso è miglioramento?
Ancora oggi purtroppo ci accade di confrontarci con episodi e pratiche condannabili. Ma c’è una grande differenza rispetto al passato: prima si consideravano eventi di cui prendere atto senza esprimere un giudizio, oggi in linea di massima non è così. È vero che le carte dei diritti universali vengono spesso violate, ma il fatto che siano state scritte e sottoscritte e ad esse si faccia riferimento in nome della civiltà non è da trascurare.
Secondo alcuni l’uomo resta sempre un animale razionale, e la sua parte animale non viene modificata dal passare dei secoli e dei millenni, tanto che ciclicamente le guerre, la violenza diffusa e altre atrocità ce lo ricordano. Ma è proprio così?
La duplice natura dell’uomo
Certamente la natura umana resta immutabile e la composizione fisica della sua materialità, i suoi processi mentali e i suoi sentimenti non cambiano. Ma c’è una seconda natura che l’uomo può dare a se stesso. Essa consiste nella modificazione progressiva dei rapporti interumani. Se le relazioni fra individui e fra i popoli sono sempre più caratterizzate dall’empatia, dai vantaggi che la cooperazione offre rispetto alla conflittualità, dall’abitudine a considerare il rispetto per la vita come uno dei principali valori a cui ispirarsi in qualunque ambito, probabilmente si potrebbe parlare di progresso morale dell’uomo.
Un processo di autoannientamento?
Si dirà che questo irenismo ingenuo non cambia l’uomo e che, con la sua evoluzione, la scienza ha permesso all’uomo l’autoannientamento, sia esso con le bombe atomiche o con le armi chimiche o altro. È più realistica questa prospettiva? Bisogna rassegnarsi al paradigma agostiniano secondo cui “l’uomo non può non peccare” perché gravato dal peccato originale. Oppure è legittimo perseguire l’ideale di una razza umana capace di sopravvivere alle circostanze che essa stessa crea?
E infine: siamo sulla buona strada? Certamente no nel mondo sviluppato che mostra il suo declino con i saldi demografici in rosso, i quali somigliano tanto a un lento suicidio del genere umano industrializzato, a una rinuncia a un futuro possibile ma non entusiasmante. Sarà opportuno chiedersi: perché?