Scrivere del volumetto di Aldo Gerbino (Aldo Gerbino, Non è tutto. Diciotto testi per un catalogo, premessa di Paolo Ruffilli, Il Club di Milano-Spirali) porta preliminarmente a riflettere, sia pure brevemente, sul rapporto tra immagine e parola e, in questo caso, tra pittura e poesia.
Tralasciando come premessa l’abusato adagio oraziano (Ut pictura poësis), formula magica per qualsivoglia discorso sull’arte, qui si pone una questione essenzialmente estetica, ai cui nodi concettuali lo stesso Gerbino allude nella “Chiosa” (Distanze) posta nelle ultime pagine del libro. Gerbino ‘interpreta’ diciotto opere d’arte di autori vissuti in epoche diverse (si va dal celeberrimo affresco Trionfo della morte del XV secolo, custodito presso la Galleria di Palazzo Abatellis di Palermo, ai disegni di Bruno Caruso e agli oli su tela di Guttuso e Guccione) con altrettanti testi poetici connotati dall’inconfondibile e personalissima cifra stilistica del poeta-critico palermitano, arguto e competente lettore d’arte.
Si badi bene: qui utilizziamo il verbo ‘interpretare’ secondo l’accezione dell’Estetica di Luigi Pareyson, il quale, partendo dall’assunto secondo cui l’opera d’arte (letteraria, figurativa, musicale…) vive e rivive ad ogni ‘lettura’, osservazione, esecuzione, giunge alla conclusione che “interpretare è cogliere, captare, afferrare, penetrare”. Proprio ciò che Gerbino felicemente tenta con i suoi testi poetici: dialogare con l’opera d’arte non fermandosi alla semplice descrizione; ma quasi sempre cogliendone i significati non ‘visibili’ o magari apparentemente in contrasto con quelli espliciti.
Sono quei «‘salti lessicali’» che, come dice lo stesso Gerbino nella “Chiosa”, «in poesia e pittura […] (ri)dimensionano le distanze, potenziano significati e accelerano il pensiero […]». Egli adopera nella prassi delle sue letture in versi una sorta di poetica dell’inferenza e dell’interferenza: illustra per analogia cioè, sia pure in modo originale e mai didascalico, le opere figurative o ne forza con sensibilità i significati, spesso per contrasto rispetto all’evidenza dell’immagine.
Nell’uno come nell’altro caso, molte volte i componimenti riportano, nei versi finali, l’èkphrasis dell’immagine alla nostra desolante realtà: ciò avviene, ad esempio, per consonanza, nel testo poetico che accompagna il Trionfo della Morte o in quello che legge il seicentesco quadro di Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp. Se negli ultimi versi del primo, il visus emotivo si sposta dal quadro a noi riguardanti («[…]/Colpiti da ferme pupille, siamo di certo/ per poco tempo, incolumi spettatori;/ proprio noi, impietosa umanità dell’oggi,/ già corrotti nel lagunare stambugio del corpo./[…]»); nel secondo, la consapevolezza del disfacimento dell’oggi si fa più avvertita e dolente («[…] Dal carillon/ del tempo sporge l’umanissima gloria della concimaia./»).
Talvolta, come si diceva, Gerbino cerca di penetrare dell’immagine quei sensi nascosti che solo l’occhio-anima del poeta riesce a cogliere, proprio perché lettore acuto e illuminato dei segni del mondo, anche di quelli riposti.
Si mettano a confronto, ad esempio, l’olio su tela di Enzo Nucci, Finestra sul Mediterraneo, e l’omonima poesia: qui i versi depongono ogni funzione descrittiva e rivelano non solo la loro capacità di attribuire nuovo senso all’immagine; ma anche la loro propensione a vedere quello che nel dipinto è rimasto in potenza e che ora il poeta ierofante suggerisce come abrasiva chiave di lettura («[…] /Ora cola il grido tagliente d’un annegato;/ pare arrestarsi sulle rovine dell’antica casa,/ per letti diafani, sul roccioso castello di Dio / sommerso di palme morenti dal soffio pastoso/[…]»).
Analogo procedimento troviamo nella poesia Piero e l’ombra del cipresso, che prende spunto dall’acquaforte-acquatinta di Piero Guccione, Il cipresso di Taormina: le parole creano una nuova epifania di senso all’insegna del brutto del nostro tempo; come se la bellezza pacificante del quadro rimandasse, per converso, alla scagliosa realtà dell’oggi. E allora, ciò avviene spesso in questa raccolta di testi poetici ispirati da opere d’arte, prende il sopravvento il lessico del dolore, ascrivibile ad un preciso campo semantico: quello della disillusione, dell’affievolirsi della speranza, del prevalere dello sconforto.
Ecco presentarsi sintagmi quale “gore tumorali”, “scoli oretei” che trovano abbrividenti echi in altri versi della raccolta; ad esempio nella piccola silloge, “Tre movimenti”, dedicata a tre disegni, due colorati uno a matita, di Bruno Caruso: El caballero de la triste figura (Don Quijote), Cervantes a Napoli, Il falco sul teschio. Nella poesia che illustra quest’ultimo disegno, lo sguardo del falco, impenetrabile ai più, diviene l’osservare disincantato e deluso del poeta che riesce a percepire «[…]/ soltanto grumi, intrecci incrudeliti di esistenze./».
Però, da questa sconfortata Weltanschauung sembra aprirsi uno spiraglio, un montaliano varco: lo troviamo, forse non a caso, nell’ultimo testo, in verità una prosa poetica, “Bagnanti in azzurrità di corpi”, che nasce dall’olio su tela di Giuseppe Modica, Bagnanti. Certo non troviamo una calda solarità; ma, come nel quadro, una calibrata e pur tuttavia sensuale malinconia di femminili presenze: «[…] sono corpi mulìebri in abbandono a raccontarci della nostalgia, del calore delle parole dopo le tante morti apparenti […]».
Aldo Gerbino è riuscito a rivitalizzare una consuetudine antica, quella di leggere i dipinti con il metro della poesia e nel contempo a sottolineare già nel titolo, Non è tutto, che dichiara il prestito dall’opera di Filippo de Pisis, C’est n’est pas tout, la sua convinzione circa l’incompletezza di ogni forma d’arte a indicare apoditticamente e univocamente significati e sensi, interpretazioni e suggestioni.
[Aldo Gerbino, Non è tutto. Diciotto testi per un catalogo, premessa di Paolo Ruffilli, Il Club di Milano-Spirali, Milano Dicembre 2018; distr. 2019, pp. 61, €12,00]