Proemio, ovvero il possibile negato

Fotografia che mostra Schatz, artista la cui patria è la Russia, seduta di fronte a un tavolo su cui vi sono due candelabri con candele accese, una mano tesa in avanti, sullo sfondo una parete con opere d'arte appese
Evelina Schatz, foto di Viktor Ribas

PATRIA, ESERCIZI AUTOBIOGRAFICI

1995-2013

 

Non sono ebrea

né per religione

né per tradizione

né per educazione

né per cultura:

solo per persecuzione

Non sono tedesca

né per tradizione

né per nascita

né per cittadinanza

ma per una dose di

partecipazione linguistica

cioè cultura (che è storia)

e anche in questo caso –

persecuzione

Non sono americana,

se non per la nascita

a Filadelfia della mia

madre

e per infinito fascino

della città di New York

 

Non sono ungherese, ma forse un po’ sì: l’aspetto di un misto di zingaro e giudeo: capelli rossi, occhi verdi, pelle bianco-lattea-lentigginosa e soprattutto carattere volitivo escandescente volteggiante e beduino: quest’ultima serietà aveva la nonna ungherese.

Non sono austriaca se non per educazione austro-ungarica: l’impero piccolo-borghese ma ancora disciplinare cioè regale: la disciplina in educazione e non in costrizione è delle grandi civiltà imperiali. Quest’ultima era già predemocratica.

Non sono russa. Se non lo fossi profondamente: per umore d’essere, per filosofia del paesaggio nativo (emotivo), per appartenenza ad un grembo materno preciso: lingua (cultura) russa con il suo complesso slavo/persiano/mongolo/turco/cinese/nomade e il resto dell’Europa. Par poco! essere russi?

Non sono italiana. Se l’italiano non fosse l’altro grembo. Scelto. Amato. Razionalizzante il mio modo russo irrazionale di essere. Struttura grafica per la mia anarchica disinvoltura coronata da un figlio d’amore per Italia.

Infine, un corpo a corpo tra la mia libertà in lotta con le imperiali costrizioni o con le democratiche riduzioni alla mediocrità. Le influenze sono sempre reciproche per leggi delle opposizioni. Stancanti e, spero, costruttive.

Sempre nostalgica della patria lingua —— Poesia

 

1995

Non sono artista

altre arti altri mestieri

se non avessi vissuto

e respirato arte

da quando mi ricordo

e non avessi nelle vene

costante sciabordio dei

mari di sangue burrascoso

di due artisti due stranieri

dei genitori scontro/incontro

sulle sponde del Mar Nero

dove Occidente incontra Oriente

dove si confondono mare e steppa

donandomi duplice nomade vista

 

Non sono filosofo

né scienziato, se non fossi nata

e cullata fra miscugli sciamanici

e spirito apollineo di Olvia-Odessa

infanzia al mare fra tavolette di terracotta

incise con eraclitea misterica sapienza

scorrere veloce dei natali luoghi

mentre morivo…

Socrate non è più divinità perfetta

e neanche Zhuang-Zi confonde il mio nulla

mentre morivo ballando con Eraclito

recitando Parmenide nello spazio scompaginato

cantavo il vuoto che non è affatto vuoto

parola di Poeta

 

Non sono poeta

se non fosse per la mia attività

clandestina in samizdat che mi obbliga

alla febbrile incessante scrittura

finché i versi non diventano

una sorta di seconda natura

necessari per il proseguimento

delle funzioni vitali

 

Non sono Poeta

se non per aver detto

Anche materia stellare è cannibale

così i ragazzi d’una scuola in Sicilia

decisero che erano parole di Dante

mentre io ero solamente un artista

paga del loro sovrano errore

da allora vado per il mondo e recito

Sono —Poeta

Tra poena insularis e rizomatiche distanze Evelina carmina.

 

 

PS

2012-2015

Non sono odessita. Se la memoria del Mar Nero non rivelasse la mia appartenenza al bacino del Mediterraneo, se non custodissi in me l’immagine delle navi e il primo amore per il figlio di un capitano, affascinante futuro capitano di lungo corso, se Odessa non fosse il luogo della mia nascita ─ non da tutti desiderata ─ se non ci fosse la memoria del profumo dei castagni e delle acacie, dell’assenzio di Karolino-Bugaz, infuso nel sale marino, nel fango di pantani, denso, come burro nero, dal lancinante odore di zolfo, se non per quel punto di osservazione nella malerba in cima al dirupo, dove le frane trascinano in mare, frana dopo frana, le alte rive che scendono in picchiata fino a Langeron, e poi i pescherecci, il primo ghiozzo e le cozze che mi salvarono dalla fame dell’infanzia e della giovinezza nella Russia meridionale, quando al familiare richiamo rombo fresco già si dipanavano i primi versi sul mare, e se non risuonassero nella memoria le arie di Verdi nell’idioma ucraino e se dalla gola non scalpitasse, gutturale, per una qualsiasi ragione e per nessuna, un riso pure così sensuale giacché vive sotto pelle insieme agli ormoni, i virus e i batteri, alimentando la libido e l’indomita volontà di creare ─ l’essenza dello spirito di una città cosmopolita sul mare. Proprio come l’Italia, scriveva in versi Bagrickij.

         Variazioni dal russo

 

Non sono Milanese se non per amore di Leonardo: la sua lucida follia voleva costruir cucine e imbandiva tavoli e feste come un Vatel, se non facesse musica che i cieli indagati versavano sulle corde del suo passionale liuto, e poi le acque ─ forse sapeva già che portavano informazione e sapienze, così le convogliò in utili pittorici canali – specchi delle brame delle nebbie, quando spariva la luna dopo aver versato l’argento sulla città che è la Cenerentola Regina. E poi il sommo palcoscenico del mondo del surreale vivere la terra cantando e inventando storie che il canto esigono per mera sofisticazione, amandolo non seppi mai spiegare perché si recita cantando oppure si canta recitando storie d’amore, di guerra, di rivoluzioni, insomma ─ Storie.

 

Non sono moscovita, se non perché Mosca è diventata il mio punto di partenza, l’unità di misura del mio nomadismo, caravanserraglio del mio girovagare. Mosca-Odessa, Mosca-Milano, e oltre: Mosca-Ufa, Mosca-Samarcanda, Mosca-Istanbul, Mosca e altri Orienti, dalla Grecia a Tokyo, da Oš a Pechino, da Sibaj ad Astrachan’, da Taškent ad Almaty. Oh, come risuonava la campana per tutta l’Orda d’Oro che fuggiva dal rombo del primo cannone di Moscovia, li aveva fusi il maestro italiano, architetto e ingegnere, demolitore di città, Aristotele Fioravanti, mentre cominciava a costruire la sua celebre cattedrale nel Cremlino. Così nacque il sogno dell’Italia. A Milano, lungo la Conca di Viarenna da lui progettata, ho passeggiato per molti anni con i miei Borzoi, Jašma e Jantar’, Timur e Roxalana, e ora dimoro nei paraggi. Sogno a due ali: Italia e Grande Steppa. Sì, Mosca, insuperato Bazar eurasiatico, qui finisce l’Europa e nascono le policrome fortezze d’Oriente, il mondo sensuale delle spezie e l’insospettata vastità dei sapori. Ma io, viandante senza casa, rotolacampo o cammello, non conosco la nostalgia per un luogo, e mi spingo fino alla fine del deserto. Ed ecco che già si vede il confine della Terra. E oltre il confine della Terra le mie ceneri galoppano su un cavallo dell’Orda d’Oro verso l’Ade di Dante.

Variazioni dal russo

 

Non sono siciliana, se non per l’ebbrezza dei suoni e degli odori dei vulcani e delle isole di Sicilia, se non per la moltitudine dei versi del migliore dei miei libri Zagara o della sicula stranizza, del resto, sono io stessa essenza di sicula stranizza, e se, nata a Odessa, non volessi cambiare il mio luogo di nascita è in Sicilia che vorrei morire — Genius loci della passione come tale.

 

Litote finale

Non sono una kazashka[1] se non mi avessero chiamata da piccola erede di Genghis Khan e se mio figlio ─ russo in Italia e cinese in Russia, da piccolo, ─ non avesse, dopo aver amato aristocratiche e plebee d’Europa e d’America (e di qualche isola come Giappone e Russia), infine avuto un figlio con una bellissima gentildonna kazaka, che abita ad Almaty, Città delle mele, nella prossimità della frontiera cinese, circondata dai picchi innevati dei monti Pamir. Bella come Vienna, ─ dice lo Scrittore ─ e se mio padre, una volta in viaggio in Kazakistan, non l’avesse dipinta, Almaty, come un giardino, portando da là a Mosca, in un panno umido, un enorme mazzo di papaveri rossi dei prati steppici. Se non mi assomigliasse, il mio piccolo italo-kazako dagli occhi chiari come due ali di aquila e i capelli tiziano come il cifir’. Uno sciabordio di sangue di Eurasia e America, complesso policromo, lingua corale. Plasma la creta, ama le scienze, gioca con me a briscola e a scacchi col padre, e mi legge in Skype i versi dell’avo, il grande kazako che io e mio padre avevamo letto nel tempo lontano. Olžas Suleimenov, poeta e studioso, e eterno diplomatico come già Pablo Neruda e Octavio Paz, lontani dall’equivoco entusiasmo popolare, mette a nudo secoli di sconfinata solitudine e di cavalcate selvagge, e l’odore aspro della steppa – ogni scritto così diventa poesia, popolata da idiomi dimenticati dei sumeri, unni, turchi, talvolta si avvistano rauche parole mongole. Sterminata distesa di assenzio e altre amare erbe porta una ferita. In quei lontani impercorribili steppici deserti furono scaricati popoli da ogni dove. Mosaico etnico devastato nell’impervia vastità. Remota e dimenticata sciagura. Come abitare la ferita, inseguita dall’anima della pianura impazzita? E così che le mie ceneri montano il cavallo di Bashkiria… La ribellione muove i corpi animali sotto la Luna modellata in Mongolia. Non sono kazashkase non avessi scritto Samarkanda o delle cerimonie e non avessi amato e letto ogni cosa sull’Antica Steppa del tormentato Lev Gumilёv, figlio di due aedi. Eh, sì, ero io a confondermi con gli eroi della mia mitica Samarcanda, antica Afrosiab e poi Marakanda, mentre parole rotolavano lungo la linea del sestante come la testa di Uluk Bek e si frantumavano in stelle, suonavano a stormo, e il rullio del cielo palpitava di blu, quel biblion dei blu Samarcanda: blu cobalto e blu notte, Blu Persia e blu Genova, blu Klein e blu oltremare, pervinca e turchino, indigo asiatico e indaco del Sahel, insomma, dolce color d’oriental zaffiro[2]. Ma la luce bluTengri[3] suona distante, arcana, invoca vita nomade ora lungo i sentieri del Cielo come quelli della Grande Steppa. Samarcanda ─ olandese volante dei cieli dell’Asia e dei deserti del cielo, mio sommergibile delle steppe, oltremarino fatato. Ecco il mio oriental lignaggio, la mia šejire[4].

O sono io ad aver divinato ogni cosa?

 


[1] kazashka – il termine kazako (fem. kazashka) in antico turco significa nomade libero e indipendente

[2] Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, canto I

[3] Tengri – la divinità turco-mongolo che presiede il cielo del pantheon politeista dei popoli dell’Eurasia, in realtà cielo divinizzato

[4] šejire – genealogiakazaka