L’occidente a rischio deriva

logo di Ben Bestetti

L’idea di un Occidente democratico contrapposto a un Oriente dispotico data almeno dai tempi delle guerre persiane, ed è ancora oggi adoperato per indicare una diversità sostanziale, talvolta religiosa, talvolta sociale, politica, culturale, artistica. L’ultimo capitolo di questa secolare contrapposizione è stato rappresentato dalla guerra fredda: da una parte si parlava in inglese di libertà, democrazia, benessere e progresso, dall’altra si praticavano sottomissione, autoritarismo, precarietà, mancato sviluppo.

La versione «euroatlantica» dell’Occidente, assolutamente inedita fino ai primi del Novecento, ha fatto il suo tempo e non serve più. Quando un’intera metà del mondo si sentiva minacciata dall’altra metà, scomparivano le divergenze interne e si puntava a conciliare interessi diversi per tutelare la sicurezza di tutti da un eventuale attacco nemico. Ma che succede ora se l’Oriente non minaccia più l’Occidente e, anzi, tenta di stringere con una parte di esso – la vecchia Europa – legami di cooperazione, pur non rinunciando alla sua identità? Che succede se improvvisamente ci si accorge che chi guidava il fronte dei «buoni» sta deragliando da fondamentali principi comuni, come la ricerca della pace internazionale, l’umanitarismo, la razionalità illuministica, la cooperazione, il multilateralismo?

Gli Usa sono stati investiti da una religiosità vetero-testamentaria che evoca lo scontro finale fra il bene e il male, in una rinnovata atmosfera di crociata contro l’Islam che sostituisce «l’impero del male» sovietico che fu di Reagan. Le presidenze della famiglia Bush per vendicare i quattromila morti delle torri gemelle hanno precipitato l’Afghanistan e l’Iraq in un inferno da cui non si è ancora usciti. Non bastasse, hanno fatto di tutto per devastare la Siria e la Libia negli ultimi anni. Inutile dire che lo scopo di tutto ciò è la polverizzazione dell’unità di questi Paesi. «Divide et impera».

Poi è arrivato Trump che ha parlato molto più pragmaticamente di affari. «America first», ha detto, e il resto viene dopo, compreso lo sviluppo sostenibile, i problemi ecologici, la pace, il diritto alla salute (caro a Obama), i rapporti con gli alleati divenuti competitors, la povertà del Sud del mondo, l’Onu, la corsa al riarmo. Il presidente Usa ha imposto dazi protezionistici che inaugurano una nuova stagione di guerre commerciali – tutti contro tutti – e ha intimato recentemente agli europei di bloccare la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 che avrebbe portato loro le risorse energetiche di Mosca. La spiegazione? Che non è accettabile la dipendenza da una potenza regionale come la Russia.

Trump inoltre esulta per l’uscita dall’Ue della Gran Bretagna. Palese è stata la sua soddisfazione nel constatare la battuta d’arresto del processo di integrazione dell’Europa. Egli infine, come campione della civiltà dell’Occidente, tenta di impedire il moltiplicarsi dei tentacoli della piovra commerciale che la leadership cinese ha denominato «nuova via della seta». Sarà che gli europei sono idealisti, ma dove sono finiti i valori comuni del dopoguerra condivisi da Roosevelt, De Gasperi, De Gaulle?