Napoleone e il cane

Napoleone e il cane
Napoleone Bonaparte; disegno di Gabriele Artusio

Davvero bizzarro e curioso è l’animo umano, non cessa mai di stupire: un uomo, uno dei grandi protagonisti della storia mondiale, un uomo assolutamente indifferente alle più indicibili sofferenze di centinaia di migliaia di suoi simili, sofferenze che egli stesso ha contribuito non poco a suscitare, di subito si commuove fin quasi alle lacrime per un fatterello da niente, per una quisquilia che potrebbe giusto intenerire una servetta. Sto parlando di Napoleone Bonaparte.

Per ben vent’anni, dapprima in Italia, poi in tutta Europa, e nei deserti d’Egitto così come nelle steppe russe, ovunque potesse far tuonare il cannone e crepitare la fucileria, quest’uomo si è trascinato dietro, a farsi macellare sui campi di battaglia, il fior fiore della gioventù francese rastrellata in tutto il Paese con la coscrizione obbligatoria.

Sul finire della sua epica avventura, per colmare i vuoti creatisi nella Grande Armée, non esita ad arruolare i quindicenni, i  “Marie-Louise”, cosiddetti perché imberbi, giovinetti dalle guance glabre come quelle della sua seconda moglie, l’eterea Maria Luisa d’Austria. E in una delle sue tante battaglie, sessanta, se non erro, dieci in più di Cesare, questo instancabile, frenetico battagliante, percorrendo a cavallo in quel di Lützen le schiere dei “Marie-Louise” in preda al terrore, terrorizzati dal micidiale fuoco dei veterani della coalizione russo-prussiana, si mette col cavallo di traverso dietro di loro per non farli arretrare e li esorta a farsi ammazzare con onore: “Non è niente ragazzi, tenete duro; la patria vi guarda, sappiate morire per lei”, in più di ventimila seppero morire quel giorno a Lützen sotto gli occhi della patria.

Quanti complessivamente morirono per la patria napoleonica? Molti, le stime oscillano tra due milioni e settecentomila e un milione e quattrocentomila.

E possono dirsi fortunati quelli che muoiono sul colpo, che muoiono cioè nel fragore della battaglia, trapassati dalle devastanti palle piene sparate dai moschetti o ridotti a brandelli dalle micidiali palle di sei libbre dei cannoni, sono veramente pochi questi fortunati che stramazzano al suolo stecchiti, sono un’esigua minoranza dei morti, a Waterloo si calcola non siano neppure il 10% dei combattenti, la stragrande maggioranza muore infatti tra atroci strazi nelle sgangherate ambulanze militari o negli improvvisati e lerci ospedali da campo, infestati di pidocchi e di scabbia, dove si opera in condizioni igieniche spaventose, dove si amputano gli arti con seghe da falegname e senza anestesia; scarsi i medici a disposizione, scarsi i chirurghi e di non eccelsa qualità, gli infermieri sono raccattati tra la popolazione del luogo, contadini per la maggiore, rozzi e incompetenti; manca sovente il materiale sanitario, perché il generale, certo di andare incontro ad una vittoria fulminea e con poche perdite, non ha provveduto all’approvvigionamento, e senza garze per tamponare le ferite i soldati tirano le cuoia insaccati nelle divise inzuppate di sangue, e senza disinfettante le ferite si infettano; perciò è tassativamente proibito trasportare i feriti nelle retrovie: nessuno deve vedere gli eroici figli della Francia in armi crepare miseramente incancreniti.

Relegato sull’ “aspra roccia” di Sant’Elena, l’Imperatore non è comunque minimante sfiorato dal rimorso, mai una parola di pietà per la lunga scia di dolore che si è portato appresso, è raccolta dal conte Emmanuel de Las Cases nel suo famoso “Memoriale di Sant’Elena”.

Per più di un anno il conte vive in stretto contatto con l’illustre esiliato, che pur toccando in conversazione molti temi della sua movimentata esistenza così ricca di eventi lieti e drammatici, evita accuratamente di indugiare sul prezzo di vite umane sacrificate ai suoi propositi di gloria.

Soltanto una volta, parlando della disastrosa campagna di Russia, dove partirono fiduciosi in seicentomila e tornarono malconcia casa in centomila, soltanto una volta entra in argomento, e lo fa per minimizzare; dice che in Russia perse meno di cinquantamila uomini, e si consola col fatto che i russi subirono perdite di quattro volte superiori a quelle francesi, insomma, sembra volerci fare intendere che vale la pena farne morire cinquantamila della propria stirpe pur di accopparne duecentomila di un’altra.

Eppure quest’uomo, Napoleone Bonaparte, all’apparenza così arido di sentimenti, a tratti cinico, cela nel petto un cuore sensibile, tenero, propenso ai più sublimi abbandoni; è lui stesso a svelare al conte e a noi tutti lettori del “Memoriale di Sant’Elena”, questo insospettato suo alto, intenerente e nobile sentire.

Siamo agli albori delle sue strepitose vittorie militari, alla campagna d’Italia siamo, dove a soli ventisette anni, generale al comando dell’Armata d’Italia, Napoleone Bonaparte si fa le ossa di condottiero. Non dice il luogo dove si svolgono i fatti di cui narra, né il tempo; sappiamo che nel corso di un giorno imprecisato si è combattuto aspramente, lui ha vinto naturalmente e ci sono molti caduti sul terreno, dell’una e dell’altra parte dei belligeranti.

Nel funereo silenzio della notte, accompagnato da alcuni uomini dello Stato maggiore, egli percorre a piedi il campo di battaglia desolatamente disseminato di corpi morti e intriso di sangue che gli inzacchera gli stivali.

Del raccapricciante tetro scenario ricorda:  “C’era un bel chiaro di luna ed era profonda la solitudine della notte. Ad un tratto un cane sbuca di sotto il mantello di un cadavere, si slancia verso di noi, e ritorna subito nel suo nascondiglio emettendo dolorosi guaiti. La bestiola leccava, convulsamente la faccia del morto, e si dirigeva poi di nuovo verso di noi come per implorare soccorso, o per chiedere vendetta.

Fosse lo stato d’animo o il luogo o il tempo o il fatto stesso, o altro che non so spiegare, certo è che mai nulla, in nessun altro campo di battaglia, mi ha tanto commosso. Mi fermai un momento per apprezzare quella scena. Quest’uomo, mi dicevo, forse ha degli amici, ne ha forse in questo campo, nella sua compagnia, e giace qui, abbandonato da tutti meno che dal suo cane! Che lezione ci dà la natura tramite un animale!…”.

Ecco, ci voleva un cane, con i suoi guaiti, con il suo leccare il volto del padrone morto, del padrone che se l’era portato fin lì in battaglia, unico a piangere la sua morte, ci voleva un cane per commuovere un cuore di pietra, assolutamente indifferente al dolore, alle sofferenze di migliaia e migliaia di uomini, di ragazzi strappati alla vita in nome della gloria.

Lui stesso si sorprende di tanta commozione, così estranea al suo essere ed evoca giustamente il mistero, quel grande mistero che è l’animo umano dove possono coesistere, mescolarsi i sentimenti più disparati, più contrastanti:

“Che cosa è mai l’uomo e quale è il mistero delle sue impressioni! Avevo, senza commuovermi ordinato battaglie che dovevano decidere sulla sorte dell’esercito, avevo veduto, con occhio distaccato, eseguire movimenti che portavano alla perdita di molti tra noi e ora mi sentivo toccato nel profondo dai gemiti e dal dolore di un cane …”

Questo grande cinico è anche un grande sentimentale, nel bene come nel male, Napoleone Bonaparte porta le stimmate della grandezza.

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