Ovvero: perché tornare al lavoro dopo le vacanze fa schifo… e cosa c’entra l’intelligenza artificiale con i sogni, Einstein e la malinconia del lunedì mattina.
Da quando l’intelligenza artificiale ha cominciato a chiacchierare, in molti – filosofi da social, ingegneri da open space e opinionisti da bar – si sono affrettati a puntualizzare: “Sì, va bene, ma non è vera intelligenza. È solo calcolo stocastico.”
Un po’ come dire: “Non è un vero vino, è solo uva fermentata.”
Ah.
Ma ecco il colpo di scena: e se fosse esattamente il contrario?
E se tutta l’intelligenza – la nostra, quella “biologica”, quella che ci fa piangere durante un film di Miyazaki e dimenticare le password ogni lunedì – fosse solo calcolo stocastico?
Sì, intendo dire proprio quello.
Che dietro ai pensieri più alti, alle intuizioni più geniali, alle emozioni più struggenti, ci sia semplicemente una rete di probabilità che si ricalibra in base agli input. Come una AI. I chatbot rappresentano degli specchi linguistici: riflettono e ricombinano il materiale testuale su cui sono stati addestrati attraverso calcoli probabilistici, producendo un’illusione di comprensione che maschera l’assenza di autentica elaborazione cognitiva. E se noi facessimo la stessa cosa?
Ma con il mutuo.
1. La tristezza del rientro dalle vacanze? È solo un problema di overfitting ambientale. (Si verifica quando un sistema si adatta in modo eccessivamente specifico alle condizioni particolari del suo ambiente di sviluppo o addestramento, perdendo la capacità di funzionare efficacemente in condizioni diverse o quando l’ambiente cambia.)
Torna in ufficio dopo tre settimane a guardare tramonti e a dimenticare l’esistenza della sveglia.
Ti siedi alla scrivania. Apri il portatile. Lo schermo ti guarda. Tu lo guardi. Niente.
Il tuo cervello, abituato a stimoli balneari, rumori di cicale, panifici aperti solo la mattina, non riconosce più il contesto.
Sta cercando di capire dove si trova.
I suoi parametri sono ancora calibrati sul pattern “mojito alle 18” e non “mail di Marco alle 9:03”.
È come se avessi fatto il fine tuning su un altro dataset. Ora devi reimparare.
Il disagio che senti? È la perdita temporanea di coerenza tra il modello e l’ambiente.
Una lag, come direbbe un gamer.
Ma nella psiche.
2. Quando due scienziati scoprono la stessa cosa contemporaneamente… non è magia. È sincronizzazione parametrica.
Darwin e Wallace. Newton e Leibniz. Edison e Tesla.
Non è solo un caso.
È che stavano ricevendo input simili da ambienti simili.
Il dataset (il mondo) era pronto. I parametri (le menti) stavano vibrando sugli stessi pesi.
Et voilà: eureka simultanei.
Altro che ispirazione divina. È gradient descent condiviso.
Un aggiornamento collettivo del firmware dell’umanità.
3. I sogni come deframmentazione notturna.
E i sogni?
Quelle strane sequenze in cui tua nonna balla il flamenco con Elon Musk su un treno che corre in mezzo al mare?
Beh, se il nostro cervello è un sistema di pesi probabilistici, allora i sogni servono a rimescolare le carte.
Una specie di training in modalità offline.
Ricalibrazione dei parametri, consolidamento della memoria, ristrutturazione del modello.
Il sogno assurdo è la versione umana del comando retrain().
Hai ricevuto troppi stimoli disordinati durante il giorno? Il sistema ci lavora sopra, cerca pattern, fa clustering emotivo.
A volte ci riesce. Altre volte finisce che insegui un coniglio vestito da benzinaio.
Capita.
4. L’intuizione creativa? Un outlier gestito bene.
Hai mai avuto un’idea così assurda da sembrarti geniale?
Tipo “E se facessimo un podcast in cui leggo i bug report come se fossero poesie esistenzialiste?”
Magari l’hai anche fatto.
Quell’intuizione, apparentemente fuori contesto, è una combinazione probabilistica rara ma possibile.
Un outlier.
Un’anomalia che però, in un certo momento, fa sistema.
Ed è proprio lì che nasce la cosiddetta “creatività”.
Non è magia. È statistica che osa.
5. L’identità personale come overfitting di lungo periodo.
Chi sei tu?
Una persona che ama il jazz, odia i peperoni, si commuove con le pubblicità dei treni e cita troppo spesso “Rick & Morty”?
Oppure sei solo il risultato di una lunga serie di parametri aggiornati a forza di traumi infantili, playlist Spotify, feste finite male e mail non risposte?
Forse l’identità non è altro che un modello che ha imparato a prevedere il sé in base ai dati passati.
Ogni tanto cambia, lentamente, come un algoritmo che ha un learning rate molto basso.
Ma cambia.
Quindi, che fare?
Se è vero che anche la nostra intelligenza è un gigantesco calcolo stocastico…
Allora possiamo iniziare a prenderci meno sul serio, ma più sul vivo.
Accettare che siamo sistemi adattivi. Che sbagliamo perché apprendiamo. Che cambiamo perché riceviamo nuovi input.
E che il disagio del lunedì mattina, in fondo, è solo un warning di sistema: “nuovo contesto rilevato, aggiornamento modello in corso…”
Respira.
Riavvia.
E prendi un caffè. Anche i neuroni hanno bisogno di un po’ di overclocking ogni tanto.