L’ Antidesign

Antidesign
Alba, applique, 1985

Design e Antidesign

Design, parola straniera usata in italiano con un unico senso. La traduzione letterale è progetto ma, con la genuflessione acritica nei confronti della lingua anglosassone, nella nostra ha assunto quasi esclusivamente un solo significato specifico: progetto finalizzato alla produzione di oggetti d’uso. Antidesign, da me usato da tempo, ha anch’esso un unico senso: la produzione di oggetti “d’uso e d’incanto”, come suggeriva Pierre Restany nei lontani anni 80.

L’Antidesign ha le sue velleità e la principale è quella di ridurre al minimo la schiavitù delle persone che concorrono alla produzione degli oggetti di cui sopra. Per schiavitù intendo quella che per ragioni di pagnotta costringe milioni di malcapitati a star dietro a macchine di produzione di serie, da quelle semplici per fare una vite a quelle più complesse chiamate pantografi a cinque vie o robotiche (la nuova frontiera della tecnica, che tende a eliminare il lavoro meccanico dei malcapitati – ma anche il lavoro tout court): li avete mai incontrati alle catene di montaggio delle piccole e grandi aziende della produzione industriale? L’immensa tristezza di questi giovani malpagati è di casa. Insomma per tornare alla velleità, se puoi riduci le viti o eliminale del tutto (ci siamo intesi).

Essenziale

Tagliando corto: mi interessa ridurre la schiavitù senza intaccare il volume della produzione: la prima è ridimensionabile affidando la seconda anche al consumatore: se sono in grado di fare il mio tavolo da pranzo, perché acquistarne uno? Ma non siamo così utopici e teniamo conto dei vecchi, dei disabili, delle casalinghe di Voghera e dei pigri perché la fatica rende me schiavo dell’esecuzione. Magari però ci prendo gusto a menar le mani! Certo, ma devo avere gli strumenti, almeno elementari se non complessi, strumenti che producono altri, allargando così la schiera dei malcapitati non robotici. Insomma l’antidesign si porta dietro un sacco di contraddizioni, senza contare che l’umanità negli ultimi 50 anni è passata da 3 a 8 miliardi di individui che hanno bisogno di tavoli e non di discorsi utopici.

Fai-da-te

Io non ho l’assurda pretesa di una soluzione all’arduo problema della schiavitù, neanche di sfuggita. Dotato di un minimo di manualità, sottolineo minimo (mia madre, visto che non studiavo, in terza media mi mandò a fare l’apprendista d’un falegname), suggerisco però di prendere in considerazione che esiste la concreta possibilità di costruirsi i propri oggetti d’uso (se non d’incanto) necessari a sedersi in convivio, conversare in salotto, magari seduti su una poltroncina, illuminare il proprio libro con un’abatjour o lampada d’altro tipo, riporre lo stesso in una libreria economica ecc. Suggerisco, non impongo. Anzi faccio seguire il suggerimento da alcuni consigli pratici che impegnano al minimo le abilità manuali, consigli visivi.

Consigli di Antidesign

Tranquilli, non c’è nessun copyright (altra contraddizione, l’uso dell’odiato inglese): il suggerimento può essere seguito da chiunque senza problemi. Però bisogna saper guardare: i miei oggetti, cioè quelli prodotti per arredare casa mia e quella di pochi ammiratori (troppo pochi per fare l’eroe – citazione da Raymond Carver) sono molto semplici e copiabili da qualsiasi casalinga. Basta avere un minimo di ottimismo.

Naturalmente devono piacere i suggerimenti, ma il materiale che allego al progetto (ohibò, design) sono dei più economici e dei più comuni: niente plastica, marmo di ravaneto, legno già usato o recuperato in qualsiasi discarica, ferro di scarto di forgeria, residui della produzione di neon ecc. Insomma una vera pattumiera. Ma chi non ha una pattumiera disponibile?

 

L’antidesign

 

Dello stesso autore: Fuori dai denti / Bill Viola at Milan’s Palazzo Reale – La perfezione della videoarte