La danza africana rompe gli schemi della colonizzazione

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L’Europa, che oggi soffre di un pesante complesso di inferiorità rispetto ai tre primi attori in campo, USA, Cina e Russia in lotta per il primato, in fase coloniale ha dominato il pianeta con la scienza, la tecnica, la religione in un turbine pervasivo di armi e di idee armate.

 Il Transnational Restitution Movement

Oggi, a cominciare da Palermo, Lipsia, Lubumbashi, Kinshasa e Berlino, in scena le lezioni e i concerti di Non è più tempo di negare, The Time for Denial is over, prima tappa del Transnational Restitution Movement, per ridare all’arte africana il suo valore “alto” rispetto agli sguardi che la “superiorità” occidentale le aveva riservato, situandola tra artigianato, folklore e oggetto di studio etnografico.

La danza africana, come arte del corpo, si impone in primo piano rispetto a questo recupero estetico-espressivo, approdando sui palcoscenici teatrali europei in nuove forme.

Il colonialismo italiano non ha comportato relazioni culturali di lungo corso con i paesi occupati, come è invece il caso di Francia, Belgio, Inghilterra, Portogallo e Spagna, ma l’Africa e il Nuovo Mondo sono presenti sulle scene più vivaci della penisola.

 

Africa a Milano

Al Piccolo Teatro, nel programma del festival Presente indicativo, “paesaggi teatrali” dedicati a Giorgio Strehler, Wakatt di Serge Aimé Coulibaly, ragiona sull’oggi guardando al futuro.

L’autore di questo lavoro-apologo, nato a Bobo-Dioulasso nel 1972, che ha fatto parte dei Ballets C. de la B. di Alain Platel a Gent, si presenta nella sua doppia identità belga-burkinabé alla testa del proprio gruppo Faso Danse Théâtre, fondato vent’anni fa.

La scena di Wakatt è invasa di tritume di sacchi neri per la spazzatura, la nuova sabbia della polluzione universale. Su questo suolo malato si muovono i danzatori, ognuno usando il linguaggio che ha incorporato, dalla danza tradizionale con maschere all’hip hop urbano, disegnando un orizzonte di differenze- ci sono anche due danzatori non africani- sospeso tra paure e conflitti. Lo stile è quello del teatrodanza nord europeo, ma la materia è quella del Continente da cui tutta l’umanità avrebbe avuto origine.

Un mix inevitabile perché il sistema teatrale resta occidentale e la storia coloniale è inevitabilmente tuttora incorporata in quella dell’Africa.

 

Marlene Monteiro Freitas

Dal suo retroterra di cultura creola afro-portoghese, Marlene Monteiro Freitas, Leone d’Argento della Biennale Danza di Venezia 2018, addita a sua volta in Mal-Embriaguez Divina il pericolo delle battaglie moralistiche e di tutte le inquisizioni della storia in un contesto tra tribunale dei processi e carnevale folle su una scena-macchina burocratica.

Africa a Torino

Il festival Torino Danza nell’autunno 2022 prenderà il largo verso nuovi lidi, a cominciare dal Burkina Faso, via Francia, con D’un rêve di Salia Sanou (Bobo Dioulasso, 1969), con lo sguardo rivolto a I have a Dream di Martin Luther King, un musical epico su identità e alterità.

Salia è cresciuto con Germaine Acogny, gran signora della danza contemporanea africana in Senegal, all’École des sables, e con Mathilde Monnier, ambasciatrice della nouvelle danse francese laggiù; e ha cofondato con Seydou Boro il centro La Termitière a Ouagadougou.

Il messaggio dell’opera ‘Broken Chord’

Dal Sudafrica arriva Gregory Maqoma, nato a Soweto nel 1973, formato in Africa e anche in Belgio alla scuola PARTS di Anne Teresa De Keersmaeker, interprete-collaboratore di artisti top della fusione come Akram Khan, Vincent Mantsoe, Faustin Linyekula, Dada Masilo, Shanell Winlock, Sidi Larbi Cherkaoui, Chevalier de l’ordre des Arts et des Lettres francese dal 2017. Nel suo Broken Chord vuole resuscitare una memoria perduta prendendo spunto dalla storia dell’African Choir, una giovane formazione che ebbe successo in Inghilterra alla fine dell’800 e fu poi dimenticata. Canto e musica dal vivo dialogheranno-combatteranno con il performer sul filo della vicenda di una storia individuale e collettiva esemplare.

 

Le Afriche

Amala Dianor, nato a Dakar nel 1976, direttore un suo gruppo, dopo gli studi ad Angers, luogo deputato francese della formazione in danza contemporanea a lungo improntato al magistero di Merce Cunningham, maestro del postmodern USA, firma un programma multi-coreografico e multi-nazionale sostenuto da “case della danza” francesi.

Avendo alle spalle lavori fortunati come Parallèle per quattro donne, Di(s)generation e The Falling Stardust, con danzatori classici, all’incrocio formale e cinetico tra hip hop e danza contemporanea, il coreo-danzatore senegalese stavolta mette insieme interpreti del suo paese di origine, ma anche maliani, burkinabé e francesi per un trittico composto da Siguifin, Man Rec, Wo-Man/Point Zero.

Siguifin, il mostro magico

Il primo titolo, Siguifin, “mostro magico” in lingua Bambara, è un affresco di gruppo per raccontare la nuova generazione di un’Africa che cambia; il secondo, il solo Man Rec, in lingua Wolof “solo io”, mescola danza africana, urbana, contemporanea bianca in un corpo maschile o femminile nero (Wo-Man); mentre Point Zero è un invito alla danza di tre amici che intrecciano solidalmente le loro differenti storie umane e artistiche.