“Come è andato poi quell’appuntamento galante?” Risposta: “Non c’è stata chimica”. Oppure “abbiamo una chimica perfetta”. Da qualche anno nella lingua italiana la chimica è diventata una sorta di misuratore, o meglio una cartina al tornasole, delle relazioni, in particolare delle relazioni amorose. C’è chimica? Funziona! Non c’è chimica? Non funziona.
In un divertente post in occasione di San Valentino, Federchimica, l’associazione delle imprese chimiche italiane, ha rappresentato la molecola dell’ossitocina: un ormone che si attiva nella fase dell’innamoramento con effetti prolungati che diventano fiducia, senso di appartenenza e attaccamento al partner.
L’amore, ai tempi del Coronavirus, è davvero una questione di chimica. Infatti, proprio in questi giorni di forte apprensione nazionalpopolare, l’attenzione sull’industria chimica italiana, eccellenza mondiale riconosciuta, è aumentata notevolmente. Oggi l’oggetto del desiderio di un intero Paese porta soltanto un nome: Amuchina.
Proprio l’Amuchina è un ottimo esempio dell’eccellenza dell’industria chimica italiana, l’unica che ha il nome di una scienza pura, a sottolineare il fortissimo legame tra fabbrica e ricerca. Infatti la chimica è laboratorio, è metodo, è rigore, ma anche creatività, andare oltre il limite. A modo suo, arte.
Partendo da queste basi, un ingegnere di Altamura, vicino Bari, terra di grano e di pane di qualità, nel 1923 brevettò questo disinfettante, che di fatto è una versione diluita e lavorata dell’ipoclorito di sodio (più noto come candeggina). Il suo nome era Oronzo De Nora.
Nel periodo in cui fu brevettata l’Amuchina, l’Italia viveva una grande crescita dal punto di vista dell’industria chimica: basti pensare alla vicenda dell’impianto di soda Solvay a Rosignano, in Toscana. Qui il grande imprenditore belga Ernest Solvay ha voluto investire, essendo un territorio con molta la materia prima. Creò tra l’altro un vero e proprio modello urbanistico dove la fabbrica era al centro, e attorno le case e i servizi per gli operai, i dirigenti e tutti coloro impegnati nei processi produttivi. Un esempio simile, per il settore tessile, è la città di Crespi d’Adda, in Lombardia. Ma questa è un’altra storia.
Interessante è ricordare che, dopo due guerre mondiali, la chimica italiana, ha assunto un ruolo sempre più centrale nel panorama economico internazionale. E qui balza subito il nome di un grande italiano, Giulio Natta, riferimento capitale nella storia dell’industria chimica, ma anche del consumo, dell’arte e di tutto ciò che di “materiale“ possiamo collegare al Novecento.
Ad esempio il polipropilene isotattico, una macromolecola che mette insieme tante piccole particelle che non riescono a stare tra di loro naturalmente. In altre parole: la plastica. Per questa scoperta (1954) a Natta, sarà assegnato il Premio Nobel nel 1963.
Natta di fatto sovvertì un processo ritenuto soltanto naturale: la sintesi dei polimeri stereoregolari, su tutti la gomma o la cellulosa. Qualcuno all’epoca definì la plastica “Il materiale che Dio si dimenticò di inventare”. Questo “controllo” del processo ha dato la possibilità, intuita subito da Natta, di sfruttare questa scoperta in diversi ambiti, industriali come artistici.
Insomma, una svolta senza precedenti. Infinite le applicazioni: dalle lenti a contatto alle carte di credito, dai telefonini ai componenti delle auto, degli aerei, delle navi, ai blister per i farmaci, o banalmente gli spazzolini da denti, o l’abbigliamento. Gran parte della nostra vita è plastica e partì tutto dall’Italia.
Ora è un materiale un po’ bistrattato, almeno dai media, spesso per disinformazione e pregiudizi. La plastica è e resta essenziale per produrre manufatti “belli e ben fatti”, dalle sedie ai nostri occhiali, fino alle lampade che hanno fatto grande il Design made in Italy.
È un elemento indispensabile per talune tipologia d’arte contemporanea, specie se si considera il contributo del riciclo, l’uso degli scarti. É il caso di Annarita Serra e Marillina Fortuna, o di Alberto Burri, il maestro di “Nero Plastica”.
Sono solo esempi di come l’economia da un lato, e l’arte dall’altro, debbano molto all’industria chimica italiana. Conoscerla è il primo passo per apprezzarla. E per innamorarsene: più amuchina, più ossitocina.