L’ente veneziano si rinnova

Biennale Venezia: copertina del dossier con articoli di Alberto Friedenberg, Alisa Guzzo Vaccarino, Carmelo Strano

Nuovi tempi, nuovi impulsi

CARMELO STRANO (*)

Cambio di marcia, tra futuro e impegno immediato nell’emergenza. L’accento è tutto nell’aggiornamento delle date e negli slittamenti di Architettura (2021) e Arte (2022). Ma è da enfatizzare soprattutto il modo fermo e proiettivo (e poteva essere puramente difensivo) di gestire i problemi generali, e non solo quelli legati alla pandemia.

Si ha la sensazione netta che la Biennale sia a una svolta di fondo: per organizzazione scientifica interna e per un nuovo impegno verso il mondo. Dentro il cinema fino al collo anche quale imprenditore di punta e di lungo corso, coronato da onorificenze e incarichi prestigiosi, Roberto Ciccuto, il nuovo presidente,  ha l’allure di un quarantenne: per portamento, , azione, idee, comportamento. E così è tornato, in altra veste, nel luogo dove il suo film ”La leggenda del santo bevitore” ricevette il Leone d’Oro, nel 1988, regista Ermanno Olmi.

Nella sua lunga vita, nasce nel 1895, la Biennale è stata segnata nel tempo da alterne vicende, ma è rimasta puntualmente arroccata in ognuna delle discipline che a mano a mano si sono aggiunte a quella iniziale, l’arte. Il predecessore di Ciccuto, Paolo Baratta, per molti anni ha dato interessanti contributi in questo senso. Ma il tempo corre e tutto cambia. le cose cambiano. Ho spesso segnalato l’esigenza di un profondo cambio di rotta della Biennale. Per la sua sopravvivenza.

Era da evitare il rischio che questa anziana signora elegantissima potesse essere guardata con rispettosa ironia dalle molteplici e dinamiche nuove strutture apparse qua e là nel mondo. Di fronte ad esse, l’istituzione italiana (c’è l’abitudine di dirla veneziana, in verità) ha il vantaggio di essere capace di  un aggiornamento originale che tenga conto del senso della struttura, della tenuta olistica – per così dire – delle sue anime creative, delle sue muse. In combutta con una fenomenologia non dico spontanea (perché questo carattere è sempre un pregio) ma priva di  momenti di riflessione, i ritmi culturali del caos e del nomadismo si sono esasperati.

Questa condizione aiuta, certo, a capire i fenomeni globali, comprese le emergenze (specie quelle permanenti), ma non ad affrontarli. Con questa idea generosa e luminosa, e non solo salvifica, delle Muse Inquiete, la Biennale, con tutte le sue sezioni e relativi direttori, gioca “à rebour”,  incontrando la storia e le storie attraversate. E che diventino anche “inquietanti”, queste muse, come dice un dipinto di De Chirico.

Ma questa iniziativa è da leggere anche con riferimento alla bussola che intende usare Cicutto: terreno della ricerca e dialogo permanente. Eh già, la ricerca. Sarebbe praticabile lasciandosi travolgere dalla fenomenologia sfrenata? Tra l’altro – e la politica di ogni parte del mondo non vuole ancora impararlo – è tempo di “costituente”. La gestione di qualunque cosa richiede il confronto allargato e in qualche caso anche paritetico (ciò che la gestione della pandemia non ha avuto adeguatamente).

Interessante il fatto che i direttori presentino analogie di vedute, pur calati ciascuno nella propria disciplina. Mi limiterò a un cenno all’arte e all’architettura. La Cecilia Alemani conferma questa apertura con la robusta e frizzante mostra “Il mondo magico” che ha realizzato, nel 2017,  quale curatrice del Padiglione Italia  e anche con l’attività svolta in vari musei all’estero col supporto dei suoi seri titoli formativi.

Architetto e ricercatore inquieto, Hashim Sarkis nel 2021 ci aiuterà a capire come “vivremo insieme” (How will we live together?).

Tra uno sguardo a Jean-Jacques Roussseau e richiami a Vitruvio, il direttore architettura propone un “contratto spaziale”, ed è chiaro, oltre che opportuno e importante, che occorre vedere la figura dell’architetto quale diretto discendente dell’autore del “De Architectura”.

Insomma, una figura centrale e ineludibile nel ripensare la società di oggi, a cominciare dalla città. Ma Sarkis, in aggiunta al dialogo tra le sezioni della Biennale, aprirà un dialogo interdisciplinare all’interno della sua mostra, coinvolgendo vari professionisti quali sociologi, giornalisti, artigiani, o semplici cittadini.

(*) Carmelo Strano, filosofo (sue teorie premiate  da istituzioni scientifiche internazionali), critico d’arte e dei linguaggi espressivi, poeta, distinguished professor di estetica, autore di dozzine di volumi e di innumerevoli saggi e articoli (La Repubblica, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, Il Tempo e, tra i periodici, Domus e l’Arca), direttore di fyinpaper.com, rivista di geocultura.

 

Le muse inquiete della danza e del teatro

ELISA GUZZO VACCARINO (*)
Biennale Venezia, mostra a Venezia, foto bianco e nero di danza
Accademia Internazionale della Danza. In primo piano, Luciana Savignano. La Biennale ’75: un laboratorio internazionale. Fotografia: Lorenzo Capellini

È lo specchio della storia culturale italiana, nelle sue alterne vicende, la mostra dal titolo Le Muse inquiete alla Biennale, che ripercorre sette decenni di vita della manifestazione di Venezia, nel padiglione centrale dei Giardini dal 29 agosto all’8 dicembre.

Un progetto fortemente voluto dal nuovo Presidente Roberto Cicutto, nel segno dell’interdisciplinarità e del far fluire le attività anche in questo 2020 complicato e difficile.

Per la prima volta, durante questa mostra Le Muse inquiete alla Biennale, in occasione del 125° compleanno dalla fondazione, tutti e sei gli attuali settori della manifestazione condividono dodici sale, a partire dagli anni Trenta quando prese vita la Mostra del Cinema, che premiò Olympia della danzatrice-regista Leni Riefensthal, favorita di Hitler. Nel 1934 andarono in scena Il mercante di Venezia di Max Reinhardt, poliedrico regista austriaco, portabandiera dell’innovazione, che influenzerà anche Hollywood, e Una favola di Andersen, che impose le danze di Jia Ruskaja, appoggiata da autorevoli amici tra i politici e gli intellettuali fascisti, nel cartellone della musica non senza qualche riluttanza. La fascinosa coreografa libero-espressiva nata in Crimea sarà poi la direttrice dell’Accademia Nazionale a Roma.

Ai tempi della guerra fredda (1948-1964) non andò in porto per divieti governativi l’invito a Bertold Brecht con Madre coraggio e i suoi figli, due volte nel 1951 e nel 1961. Si inscenò invece Il mandarino meraviglioso di Bartók, vietato per scandalosità degenerata nella Germania nazista.

Negli anni Cinquanta arrivò dagli USA il New York City Ballet con i lavori di George Balanchine e Jerome Robbins, entrambi di origini russe, ma campioni del nuovo balletto occidentale post-romantico. La Vecchia Europa rispondeva con Aurel Milloss, ungherese naturalizzato italiano, alla testa del Balletto dell’Opera di Roma e poi dei Balletti della Biennale con un menu che comprendeva persino una Ballata senza musica.

Il ’68 portò in Laguna altri tre autori americani, Alvin Ailey, con una danza inedita, “negra”, ma non folklorica, non esotica e non di intrattenimento, segnando una svolta durevole nella storia della danza mondiale. E poi Merce Cunningham, liberatore della danza dal ruolo di ancella della musica, in complicità con il compagno John Cage, e Alwin Nikolais, artista totale con Imago, lavoro astratto e formale, in cui si fa ammirare Carolyn Carlson, futura direttrice della Danza, che, nel 1999, diventerà un settore a se stante della Biennale.

Negli anni Settanta, sotto le cure di Carlo Ripa di Meana, Il Living Theatre, Jerzy Grotowsky e Meredith Monk rompono le convenzioni teatrali e propongono laboratori animatissimi. Maurice Béjart è il deus ex machina degli Incontri Internazionali della Danza, cosmopoliti, con compagnie e maestri di ogni genere da ogni dove. La IXème Symphonie del coreografo-star in Piazza San Marco seduce il pubblico e suscita polemiche tra i critici musicali per l’ardimento sacrilego dell’impresa titanica di tradurre un monumento dello spirito in un’opera della carne, con cast kolossal di giovani danzatori, belli e multicolor, con coro e orchestra.

Bob Wilson offrirà, da parte sua, la pièce-monstre di cinque ore senza intervallo Einstein on the Beach, dove danza Lucinda Childs, futuro Leone d’Oro, mentre il pubblico può entrare e uscire a piacimento.

Negli anni Ottanta, nel programma della Biennale Teatro, approdano alla Fenice ben otto titoli di Pina Bausch, nume del Tanztheater con gli epocali Café Müller, in un mare di sedie, e il drammaticissimo Sacre du Printemps, sulla terra umida.

Il nutrito gruppo di danzatrici e ballerine, scelte dalla Carlson, nel segno del cosmopolitismo del tempo, per il  ciclo Solo Donna, nel 1999, comprendeva anche la canadese Marie Chouinard, attuale direttrice della Biennale Danza.

(*) Elisa Guzzo Vaccarino è storico della danza moderna (ha insegnato Storia del balletto e della danza alla Scuola della Scala) e critico per quotidiani e riviste (ha scritto su grandi coreografi, sulla danza futurista, globalizzata, multietnica, ha collaborato a Tele + 3, Rai Sat, Rai 3 e curato mostre, come La danza delle avanguardie al Museo MART di Rovereto.

 

Nel 2022 il richiamo dell’arte

ALBERTO FRIEDENBERG (*)
Biennale Venezia, ritratto della curatrice Cecilia Alemani
Cecilia Alemani, curatrice della 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, in programma nel 2022, Foto courtesy The High Line, foto di Liz Ligon

Saltato l’appuntamento con l’architettura per questo 2020, possiamo andare a prospettare il futuro per la Biennale d’Arte 2022. I 579.000 visitatori della Biennale d’Arte 2019May you live in interesting Times”, curatore Ralph Rugoff sono quasi un record. Anche il 2018 era stato interessante con la Biennale d’Architettura “Freespace”, con i suoi 275.000 visitatori, con la cura di Yvonne Farrel e Shelley Mac Namara.

Venezia ha offerto spazi di grande qualità alle iniziative della Biennale, essendo ricca di edifici storici di grande valore, ma, anche a causa dello spopolamento del centro, ha reso disponibili diverse strutture. L’effetto Biennale ha catalizzato su Venezia l’interesse di produttori di beni di lusso come Prada e Pinault. In edifici come la Punta della Dogana, Palazzo Grassi e Cà Corner Della Regina sono stati organizzati musei/esposizioni d’arte contemporanea che difficilmente avrebbero trovato una destinazione migliore in altre sedi e in altre città.

Se Londra con la Tate Gallery e Amburgo con la Elbphilarmonie si sono lanciate nel corso dell’ultimo decennio nella realizzazione di progetti costosissimi dell’ordine di qualche miliardo di euro, Venezia ha riutilizzato con senso pratico parte del patrimonio storico. Grazie alla Biennale, Venezia ha continuato a essere meta di turismo di élite. Come Amsterdam e Barcellona ha mantenuto anche il ruolo di luogo sacro del turismo di massa.

La pandemia Covid ha cambiato gli equilibri tra turismo di massa e turismo di elite. L’appuntamento del 2021 è stato rimandato alla Biennale d’Arte 2022 e la direzione assegnata a Cecilia Alemani è stata prolungata.

Il turismo di massa, anche nella sua versione crocieristica, è completamente scomparso. I visitatori erano più di venti milioni ogni anno. Un buco di presenze che nessuna Biennale, che faccia affidamento soltanto con il suo pubblico di élite, potrà colmare. Per ora siamo al silenzio dopo la tempesta. Ma i legami tra turismo di massa e istituzioni di élite come, in fin dei conti, è la Biennale, sono molto più stretti di quanto si voglia riconoscere.

L’Organizzazione Mondiale dei Musei sostiene che “questa crisi ha portato le istituzioni culturali vicino al tracollo”. Riduzione del personale, dei fondi e delle entrate, sia delle biglietterie che degli sponsor, saranno la norma. I fondatori della Biennale, che nasce alla fine dell’Ottocento, puntavano a fare di essa uno strumento per traghettare Venezia nella Modernità. Ora, dopo aver cavalcato tre decenni di turismo di massa, Venezia sembra chiedere alla Biennale di utilizzare il suo orientamento di élite per un nuovo inizio. A questo scopo, la prossima edizione della Biennale d’Arte 2022 sarà fondamentale e sappiamo che il sentiero su cui muoversi sarà stretto e pieno di insidie.

(*) Alberto Friedenberg ha studiato allo IUAV di Venezia e al Politecnico di Milano. Vive e lavora tra Milano e Berlino. Pubblicista, ha scritto di Architettura e Design (l’Arca e Modo), ha lavorato a Zurigo, Londra e Berlino nell’ambito del rinnovo urbano anche quale specialista immobiliare e consulente di imprese di real estate.