Arthur Aeschbacher, artista letterato

nella foto a colori si vede un manifesto collage con tante parole nere

Il nome di Arthur Aeschbacher è noto solamente ad alcuni amanti d’arte particolarmente colti ed esperti. Ma quest’anno una sua mostra alla Galerie Lara Vincy ci ha restituito questo sorprendente artista.

 

Cenni biografici

 

Nato a Ginevra nel 1923, non ha mai parlato molto della sua famiglia, giusto qualche parola sulla madre, cavallerizza in un circo. Lo stesso per quanto riguarda l’infanzia, gli studi e gli inizi della sua carriera: si dice che sia stato allievo di Fernand Léger e studente all’Accademia de la Grande-Chaumière e all’Accademia Julian.

 

La sua storia di artista comincia per tutti a Parigi agli inizi degli anni ‘50. Ha fatto parte della mostra curata da André Breton nel 1952 alla Galerie l’Etoile Scellée, poi alla Galerie Marforen con una presentazione di Jacques Prévert nel 1956 e, infine, alla Galerie Cilette Allendy nel 1958.

Agli inizi degli anni Sessanta inizia a lavorare con i manifesti strappati. Il critico Charles Etienne ne apprezza e sostiene l’opera, esponendolo alla Galerie Fachetti nel ’65. Dopo aver conosciuto l’editore e gallerista Jacques Damase, espone nella sua galleria di Bruxelles nel 1969 con un bel catalogo.

 

I manifesti

 

A differenza dei “Lettristes” e degli “Affichistes” come Jacques Villeglé o Mimmo Rotella, entrambi arruolati da Pierre Restany nel gruppo dei Nouveaux Réalistes, Aeschbacher continua a usare la pittura. Pittura e collage rimangono sempre legati nella sua opera, in modo più o meno stretto a seconda dei casi. Ha sviluppato modi diversi di combinare pittura e parole dei manifesti che usava, realizzando anche quadri di grandi dimensioni.

Usava molto spesso manifesti di teatro di inizio ‘900, di quelli che venivano affissi sulle colonne Morice di forma cilindrica nella capitale francese. Strappava diversi strati e poi incollava il risultato dall’alto al basso. Quello che gli interessava di più di questi manifesti, composti di sole scritte, tra le quali talvolta si poteva ancora intravvedere il titolo dell’opera o i nomi degli attori, era l’inchiostro nero molto lucido e saturo.

 

Ha fatto tanti tipi diversi di questo genere di collage. Era come se questa tecnica avesse vita propria e capacità di trasformarsi in continuazione. Non sono semplici variazioni su un unico tema: si tratta ogni volta di un nuovo modo di interpretare il gioco e il confronto delle lettere, dei colori, del modo di usare il materiale.

Ha provato anche a cambiare poetica e materiali nel corso della carriera. Un esempio: ha fatto una serie di tele con le vecchie insegne cilindriche dei parrucchieri, con strisce blu, bianche e rosse, che ruotavano con un effetto cinetico (sono quasi sparite, ma erano ancora numerose durante la mia infanzia). Erano, però, ancora presenti in Messico, dove Aeschbacher trascorreva metà dell’anno.

 

L’idea delle tapparelle

 

E poi ama introdurre nuovi concetti e oggetti, come la tapparella. Nel 1972, presenta alla Galerie Germain, a Parigi, una mostra intitolata Storesurface: un gioco di parole che deriva dal nome scelto dal gruppo di artisti Supports-surfaces. Si tratta di tapparelle in plastica dove appaiono pezzi di scritte di manifesti stampati. Se si alza la tapparella, la configurazione delle parole cambia.

Questa pratica artistica si avvicina un po’ all’arte cinetica, ma sempre con l’interesse a divertirsi con le scritte. Si potrebbe anche parlare delle Oblitérations blanches (Galerie Convergences, Nantes, 1983).

 

Gli oggetti trasformati

 

Nel 2012, ha presentato un ciclo di opere che traggono origine dai cartoni della birra messicana Pacifico, su cui predomina il giallo. Nel 1995, invece, ha creato dei ventagli d’artista. Da un’idea di base, Aeschacher è riuscito a sviluppare un ricchissimo ventaglio di invenzioni.

Si è anche interessato all’editoria: ha illustrato un libro di Alain Borer su Arthur Rimbaud con un testo di Philippe Soupault, edito da Lachenal et Ritter nel 1985.

L’ultimo libro d’artista, realizzato nel 2018 in 20 copie per la casa editrice parigina Akié Arichi, con i suoi collage e un testo mio, si intitola «Pas vu, pas pris».

 

Da non dimenticare gli oggetti che ha trasformato, soprattutto le scatole, come quelle che si sono viste nella sua ultima retrospettiva alla galleria Arthème di Parigi quest’anno.

 

Un poeta visivo

 

È difficile, direi impossibile, ridurre a poche parole l’intera opera di Aeschbacher, piena di sorprese e di sviluppi imprevisti. Ma è sicuramente uno di quegli artisti che sono riusciti al meglio a dare alle lettere e parole, alla scrittura in generale, la loro nobiltà, e anche la possibilità di un’infinità di situazioni plastiche che non si ripetono mai.

 

Non ha ricercato la formula esatta, ma un movimento dello spirito tramite i materiali utilizzati che escono dal proprio contesto. In questo modo, è stato una specie di poeta visivo (era molto amico di Bernard Heidsieck e di Brion Gysin), un pittore che ha avuto la capacità di combinare la pittura con elementi rubati alla realtà della strada, un affichiste che non si accontenta mai del manifesto trovato, strappato o rubato.

È sicuramente uno degli artisti parigini più importanti fra quelli che hanno lavorato in Francia negli ultimi settanta anni. Con lui, si può capire che allegria e rigore formale possono andare mano nella mano.