Alla Biennale di Venezia la dismissione del vecchio mondo capitalista

Alla Biennale di Venezia la dismissione del vecchio mondo capitalista

Nel Padiglione Italia della 59° Biennale di Venezia di quest’anno, curato da Eugenio Viola, curatore capo del Museo di Arte Moderna di Bogotà, c’è uno stato di grazia realizzato dall’artista Gian Maria Tosatti (Roma, 1989), direttore artistico della Quadriennale di Roma. Lo stato di grazia è quello che avviene quando l’opera prefigura una metafora in cui esplicito e implicito coincidono. Esplicito è, ad esempio, il riferimento alla dismissione del vecchio mondo, quello del sogno capitalista industriale prefigurante benessere per la comunità, sogno finito senza funerale.

Nello spazio delle Tese alle Vergini, all’Arsenale, l’artista ha ricostruito un luogo che evoca gli spazi inquinati eppure onirici di “Stalker”, il film del 1979 di Andrej Tarkovskij, una fabbrica tessile senza tempo dismessa. Il titolo, “Storia della notte e destino delle comete”, potrebbe già essere una poesia breve a cui nulla è da aggiungere. La notte è quella del risveglio dalla promessa capitalista, che ci lascia come i fantasmi degli operai assenti, impersonati dai visitatori. Questi, e siamo grati a Tosatti, non sono stati forniti di didascalie introduttive, sono lasciati a tu per tu con una messa in scena che li trasforma in operai dell’oggi, consumatori spaesati che si aggirano attorno alle macchine da cucire senza avere più né la necessità, né l’abilità né l’attitudine a farne lo strumento di una vita.

Alla Biennale di Venezia la dismissione del vecchio mondo capitalista
Gian Maria Tosatti, “Storia della Notte e Destino delle Comete”, Padiglione Italia alla Biennale Arte 2022, a cura di Eugenio Viola, Commissario del Padiglione Italia Onofrio Cutaia. Courtesy DGCC – MiC / Gian Maria Tosatti, “History of Night and Destiny of Comets” (Storia della Notte e Destino delle Comete), Italian Pavilion at Biennale Arte 2022, curated by Eugenio Viola, Commissioner of the Italian Pavilion Onofrio Cutaia. Courtesy DGCC – MiC

Questa specularità fra noi visitatori di un’arca di Noè approdata senza nessuno a bordo e gli operai inesistenti, Tosatti l’ha resa anche a livello implicito. Mentre il pubblico passeggia nello spazio dove le macchine da cucire ancora riportano i nomi dei vecchi operai, dal piano superiore, dove l’artista ha ricreato l’ufficio del direttore, da una larga finestra altri visitatori osservano quelli di sotto, divenendo de facto i fantasmi del vecchio direttore che controllava lo stato dei lavori dall’alto dei suoi uffici.

La messa in scena di questo sogno quasi dechirichiano prosegue poi con la seconda zona, un pontile di cemento circondato da acqua nera, in uno spazio buio. Sulla parete frontale del fondo brillano piccole luci, stelle comete, o lucciole pasoliniane, le metafore riuscite non hanno bisogno di sottotitoli. La stella brilla quando muore, Tosatti non è consolatorio ed è riuscito in qualcosa di impossibile: far procedere i visitatori con lentezza, e farli uscire senza parole. Il primo Padiglione Italia dedicato ad un solo artista è la messa in scena di una poesia silenziosa.

Colloquio con Eugenio Viola – curatore del Padiglione Italia alla 59° edizione della Biennale di Venezia – e con Gian Maria Tosatti

Angela Maria Piga: “Il latte dei sogni” fu una raccolta di fiabe surreali e magiche scritte da Leonora Carrington per i figli quando si trasferì in Messico a metà del secolo scorso. La pubblicazione postuma del 2013 e l’aver Cecilia Alemani dato il titolo alla 59° Biennale veneziana a partire dal libro mi porta ad una domanda specifica. Il Surrealismo e la sua propensione all’assurdo e alla prefigurazione di un mondo altro non sembra più avere posto nella nostra società letterale, materialista e consumistica. La retorica ha strappato il potere all’immaginazione, la narrazione alla visione, eppure non c’è racconto di apocalisse senza visioni, senza profezia, senza simboli e senza rinuncia alla realtà contingente. In questo senso, come si posiziona l’opera “Storia della Notte e Destino delle Comete”, è racconto di realtà o visione altra e alterata, come furono quelle surrealiste?

 

Eugenio Viola: Il progetto espositivo parte dalla materia offerta dalla realtà presente, come succede nei sogni tanto cari ai surrealisti, per mischiarla con la letteratura, la performance, il teatro, le arti visive e l’architettura e conferire forma a immagini che vogliono essere una guida, una scintilla per il futuro. La Storia della Notte è una metafora che si offre a molteplici interpretazioni. È il sonno della ragione che genera i mostri. Con il Destino delle Comete, attraverso un’allegoria, ci si interroga su quale sia il futuro degli uomini: le comete, metaforicamente parlando.

 

Gian Maria Tosatti: Il surrealismo è un linguaggio. Questo non significa che nella sostanza esso non rappresenti la realtà nel suo modo più crudo e crudele. Per definire un fenomeno nella sua precisione bisogna sempre scegliere il linguaggio adatto. Talvolta si deve parlare una lingua di strada, altre volte si deve ricorrere alla poesia. Per colpire bersagli differenti non si possono usare sempre le stesse frecce. Anche Pasolini, nel suo famoso articolo “Il vuoto di potere in Italia” ha scelto una metafora poetica, quella della scomparsa delle lucciole. Le lucciole, sono un ricordo ben impresso nell’infanzia di ognuno di noi. Mettere le lucciole in un discorso politico è puro surrealismo. Reclamare una lucciola significa reclamare quello che credevamo di meritare quando eravamo bambini, significa spazzare la cataratta di disillusione che è calata sui nostri occhi di adulti quando osserviamo la scena politica.
Talvolta anche io devo essere letterale, altre letterario. Talvolta metto il visitatore di fronte alla realtà più bruciante, altre lo coinvolgo in visioni che di primo acchito possono sembrare oniriche, ma poi, un attimo dopo, si dimostrano la quintessenza della realtà, ossia una realtà che non sarebbe potuta essere raggiunta con tanta fedeltà se non attraverso un salto poetico.

 

A.M.P.: Nel Destino delle Comete c’è appunto il riferimento alla scomparsa delle lucciole descritta da Pasolini nel suo articolo del febbraio 1975 sul Corriere della Sera “Il vuoto del potere”. Pasolini indica una cesura epocale italiana sancita dalla sparizione delle lucciole corrispondente ad una rivoluzione sociale neo-capitalista che annichilì negli anni ’60 e ’70 i paradigmi sociali precedenti. Per lo scrittore la situazione italiana fu del tutto specifica perché si passò da un mondo arcaico e contadino a un mondo ferocemente industrializzato sotto l’egida di politici imbevuti di fascistizzazione mascherata di democrazia. In quale maniera l’opera alla Biennale riesce ad esprimere una specificità italiana nell’ambito di una situazione globalmente e fatalmente comune alla maggior parte dei paesi nel mondo?

 

E.V.: In quest’opera, l’Italia diventa il simbolo di un certo tipo di atteggiamento. La giovane nazione uscita dalla dittatura e poi da una guerra che ha distrutto una generazione e la materialità delle sue città, in cui tutto era da costruire, ha in qualche modo scelto di attuare politiche che hanno favorito la logica del profitto in maniera del tutto indifferente ai delicati equilibri ambientali che caratterizzano il territorio. Questo è successo in Italia, ma non solo, è il mito del progresso che è stato esportato in tutto il mondo. Le lacerazioni e le contraddizioni della società che ha smascherato la nostra condizione meta-pandemica, offrono oggi l’opportunità di riconsiderare una serie di temi centrali per la nostra esistenza, individuale e collettiva. Il genere umano ha la possibilità, ancora una volta, di soffermarsi sulle macerie di una crisi, per capire se sotto di esse possano crescere, oltre le facili retoriche, nuove possibilità per il futuro.

 

G.M.T.: Credo non si possa più parlare di problemi nazionali. Esistono ormai problemi globali, su cui, però, insistono prospettive territoriali e culturali precise. Questo padiglione è un ritratto fedele dell’Italia di oggi. Il fatto che molti ci vedano l’Italia degli anni ’70 la dice lunga. E’ una confessione indotta. In fondo, il pubblico che fa questa associazione sta letteralmente affermando che questo paese è fermo da cinquant’anni, perché, in realtà, tutti gli elementi presenti in questo padiglione sono stati estratti dai loro contesti solo pochi mesi fa. Tutte quelle fabbriche erano ancora in attività fino alla pandemia. Abbiamo fatto una fotografia fedele dell’Italia di oggi, da cui si evince un ritardo politico, civile, filosofico, di diversi decenni. E’ l’Italia, sì. Ma siamo certi che il mondo, invece, stia marciando al passo col presente? Siamo sicuri che altrove non abbiano accumulato un ritardo simile? Siamo sicuri che il nostro rapporto con l’ambiente e col pianeta non sia ovunque rivelatore del fatto che abbiamo una mentalità e un atteggiamento decisamente in ritardo rispetto alle urgenze attuali? In fondo la comunità scientifica batte su questo tasto da decenni. E lo fa in tutto il mondo allo stesso modo.

 

A.M.P.: Viola ha denunciato nel testo in catalogo le conseguenze nefaste della estetizzazione del reale nella società odierna dei consumi. Può descrivere quali sono le conseguenze e le cause di questa estetizzazione e in quale maniera l’arte può riuscire a non cadere nella stessa trappola?

 

E.V.: Tutto oggi è iper-estetico: la pubblicità, i videoclip, i trailer, la politica, la vita stessa. Io credo che l’arte debba confrontarsi in maniera dialettica e, se necessario, polemica, con quelle che sono le contraddizioni e le lacerazioni della contemporaneità. Non necessariamente prendendo un punto di vista. Specialmente in un presente incerto come quello che viviamo, animato dal rinfocolarsi di estremismi e intolleranze a ogni livello: genere, razziale, cultuale, sociale, politico e culturale, l’arte deve ergersi per la coesistenza di ogni possibile differenza, deve creare ponti, non barriere.

 

G.M.T.: L’arte è estetica non è estetizzante. Se vogliamo combattere il ritardo con cui stiamo affrontando i problemi abbiamo bisogno di persone giovani al comando, non di persone “giovanili”.

Alla Biennale di Venezia la dismissione del vecchio mondo capitalista
Gian Maria Tosatti, “Storia della Notte e Destino delle Comete”, Padiglione Italia alla Biennale Arte 2022, a cura di Eugenio Viola, Commissario del Padiglione Italia Onofrio Cutaia. Courtesy DGCC – MiC / Gian Maria Tosatti, “History of Night and Destiny of Comets” (Storia della Notte e Destino delle Comete), Italian Pavilion at Biennale Arte 2022, curated by Eugenio Viola, Commissioner of the Italian Pavilion Onofrio Cutaia. Courtesy DGCC – MiC

Dobbiamo arrivare alla crudeltà del volto vero delle cose, non farci ingannare dal maquillage.

 

A.M.P.: Nel 2015 Eugenio Viola è stato il curatore del Padiglione Estone alla Biennale di Venezia e presentò un’opera di Jaanus Samma su un processo realmente accaduto ad un individuo negli anni ’60 in pieno regime sovietico per omosessualità. Anche qui venne realizzato una sorta di spazio scenico in cui lei definisce, come per il padiglione italiano di quest’anno, lo spettatore come un voyeur per procura. Che cosa si intende con questa definizione?

 

E.V.: Il visitatore è investito di un ruolo specifico, un compito fondamentale che è quello di attivare lo spazio con il proprio sguardo, il proprio sentire. Ritengo che le opere, un progetto, una mostra, un padiglione siano riusciti solo se una volta terminata l’esperienza di visita te ne vai con più domande di quando sei arrivato. Se questo transfert funziona, vuol dire che la mostra o il progetto funzionano.

 

G.M.T.: Io ed Eugenio condividiamo una cultura transdisciplinare. In realtà sembra una cosa particolare, perché per un periodo a cavallo tra gli anni ’90 e gli anni zero, qualche curatore di potere, ma di scarsa visione, ha cercato di rendere l’arte ariana, concettuale, fredda, non emotiva. E’ stata una cavolata, ma certo ha comportato un piccolo trauma. Però lo abbiamo superato bene. Per esempio io e Viola abbiamo un rapporto molto forte con il teatro, esattamente come Bernini, autore di messe in scena incredibili non solo nelle sue creazioni architettoniche, pittoriche e scultoree, ma anche proprio sui palcoscenici delle corti romane. E sì, abbiamo un rapporto molto forte con il teatro, proprio come Anne Imhof, come William Kentridge, come Theaster Gates. Ci sentiamo in ottima compagnia. D’altra parte il XXI secolo in arte è il secolo dell’arte ambientale e della performance. Nel mio lavoro provo a fare una sintesi, costruisco delle grandi opere ambientali, in cui il visitatore è performer.

 

A.M.P.: La Biennale del 2015 di Okwui Enwezor fu  criticata perché definita “politica”. Oggi che la politica è considerata roba vecchia e il profitto e il pragmatismo la hanno sostituita, potrebbe l’arte invece riaffermarne il ruolo chiave in un’ipotesi di mondo alternativo a quello di “Metropolis” di Fritz Lang in cui siamo del tutto immersi?

 

E.V.: Assolutamente sì, è quello che penso anche io. Citando la mia amica Tania Bruguera, mi definirei un “artivista”, perché faccio politica con i progetti che presento.

 

G.M.T.: Beuys diceva: «Sono un artista, quindi un politico». E non riesco a pensare a niente che sia più politico del rituale della Tragedia nell’antica Grecia. L’arte mette l’uomo di fronte ad uno specchio e facendolo, gli riconsegna nelle mani il proprio destino. Noi non facciamo intrattenimento, non decoriamo le case. Il nostro ruolo è cruciale. Il problema, semmai, è un altro. L’arte è estetica, non è etica. L’arte non conosce il giusto o lo sbagliato. L’arte è devota alla verità. E la verità non è corretta. Alcune delle ultime biennali, come quella di Okwui o quella di Rugoff, ci hanno proposto delle visioni etiche: il mondo come vorremmo che fosse. Ma queste sono prospettive che attengono alla filosofia. L’arte deve ritrarre il mondo per com’è. Nella sua crudeltà.

 

A.M.P.: C’è stata sorpresa per aver scelto di dedicare il padiglione italiano ad un solo artista, cosa del tutto normale invece per i padiglioni nazionali degli altri paesi. Come spiega questa sorpresa e perché ha fatto questa scelta?

 

E.V.:  La scelta di un unico artista è scaturita dalla volontà di porre finalmente il Padiglione Italia in competizione con le altre esperienze internazionali che sono abituate da tempo a presentare una risposta univoca e secca, così – utilizzando una definizione che credo rappresenti bene questa scelta – allo schema trinitario proposto dai miei ultimi predecessori, ho preferito un artista che, invece, è uno e trino. Il progetto di Gian Maria Tosatti è un progetto visionario e complesso, e sono davvero grato alla Direzione Generale Creatività Contemporanea e al Direttore Generale Onofrio Cutaia per aver creduto in questa scelta, apparentemente radicale, ma credo necessaria.

Come ho dichiarato più volte, ritengo il lavoro di Gian Maria Tosatti un unicum nel panorama artistico italiano e internazionale. È un artista che ha una padronanza assoluta dello spazio, derivante anche dalla sua formazione eccentrica che interseca i territori dell’arte e i “domini dell’abitare”, per richiamare il titolo di un libro del mio maestro, Angelo Trimarco, con il “peccato originale” del teatro, che contribuisce a dare al suo lavoro un approccio prepotentemente scenografico ed introspettivo.

 

G.M.T.: E’ stata una sorpresa per me ricevere questo onore. Quando Eugenio mi ha chiamato non avevo realizzato cosa significasse davvero fare il padiglione da solo. Era una cosa che auspicavo succedesse da quando mi occupo di arte e vado a vedere le Biennali. Ho sperato a lungo che il mio paese si allineasse a tutti quelli più importanti proponendo un discorso chiaro, netto, portato avanti da un solo artista che potesse dimostrare tutta la sua capacità visionaria, senza i limiti di dover condividere lo spazio con altri venti colleghi. Ma quando è toccato a me non ho davvero collegato questa prospettiva. Mi sono limitato a fare il mio lavoro. In fondo, gli artisti lavorano sempre da soli. E così ho fatto anche io. Ho realizzato l’opera di Venezia come tutte le altre realizzate in questi anni. D’altra parte è vero che Venezia è una occasione importante, ma nessuna vetrina potrà mai essere più importante dell’opera che vi si presenta. Quindi la differenza del dove si fa una mostra sposta davvero poco. Importante è fare un lavoro capace di aiutare chi lo vede ad affrontare davvero se stesso.

 

Alla Biennale di Venezia la dismissione del vecchio mondo capitalista
Gian Maria Tosatti, “Storia della Notte e Destino delle Comete”, Padiglione Italia alla Biennale Arte 2022, a cura di Eugenio Viola, Commissario del Padiglione Italia Onofrio Cutaia. Courtesy DGCC – MiC / Gian Maria Tosatti, “History of Night and Destiny of Comets” (Storia della Notte e Destino delle Comete), Italian Pavilion at Biennale Arte 2022, curated by Eugenio Viola, Commissioner of the Italian Pavilion Onofrio Cutaia. Courtesy DGCC – MiC