Al di là del coronavirus, gestione e legalità

una mela inizia a marcire e delle formiche iniziano a entrare attraverso una crepa

Nella graduatoria stilata ogni anno dall’organizzazione Transparency International relativa al livello di corruzione percepita nei vari Paesi del mondo nella pubblica amministrazione, la Cina condivide con India e Marocco l’80° posizione. Per un Paese che pretende di mettersi alla guida del progresso materiale e civile planetario la faccenda è un po’ imbarazzante. Il Presidente Xi Jinping non ne fa mistero nei suoi discorsi ufficiali, si è dato da fare per rendere più efficaci le misure di controllo delle irregolarità e si è battuto per l’inasprimento delle condanne, che possono arrivare anche alla pena capitale. Quali sono le ragioni di questo insuccesso?

In primo luogo l’opacità dei processi decisionali, da cui dipendono spostamenti di enormi somme di denaro. Tali processi sono spesso delegati a poche persone esposte a forti pressioni dei nuovi potentati economici del Paese e da quelli internazionali. In secondo luogo va constatata la mancata indipendenza della magistratura che dovrebbe indagare e giudicare i colpevoli. I tribunali in Cina sono sottoposti al Partito unico dove, inevitabilmente, in mancanza di controlli, può accadere di tutto. Le autorità invitano i cittadini a segnalare gli episodi di corruzione di cui vengono a conoscenza, anche per via telematica tramite applicazioni appositamente messe a punto, ma il timore di subire ritorsioni da parte dei denunciati rende debole questo strumento.

Qualche tempo fa il New York Times ha pubblicato un’inchiesta che riferiva sui costosissimi regali ricevuti da alcuni leader politici cinesi (si parlava di milioni di dollari) da parte di Deutsche Bank in cambio del loro appoggio a progetti finanziari proposti dal grande Istituto di Credito. Fra gli omaggi anche l’assunzione di un centinaio di parenti di tali leader assolutamente non qualificati. E sembra che non sia un caso isolato perché negli ambienti dell’alta finanza si mormora che molte banche di investimento internazionali abbiano ottenuto con gli stessi metodi grosse commesse da parte di enti statali di Pechino. Poiché i media sono strettamente controllati dal Partito – esattamente al contrario di come dovrebbe avvenire in un Paese democratico – gli affari privati e familiari dei funzionari, soprannominati nel gergo popolare «i principi», restano coperti dal segreto.

Le proteste studentesche del 1989, che si conclusero con la sanguinosa repressione ordinata da Deng Xiaoping, furono motivate anche dalla conoscenza da parte degli intellettuali di queste pratiche corruttive. Ne è controprova il fatto che, subito dopo quei drammatici eventi, alcune imprese di proprietà di importanti funzionari del Partito vennero chiuse d’autorità. Recentemente il Presidente Xi Jinping ha invitato tutti i funzionari a svolgere con onestà le mansioni che sono loro affidate e a esercitare un controllo più severo sulle attività dei propri parenti. Il popolo cinese non può accettare, infatti, che si sia combattuta l’iniquità sociale capitalistica per vedere poi rinascere privilegi economici proprio al vertice di quello Stato che li aveva eliminati.