Quale identità?

logo della rubrica Aristotele Digitale che mostra una scultura del filosofo, ma solo la testa

In questo preciso momento (sono le 16,04 dell’8, del 7 del 2020) worldmeter mi dà 7 miliardi e 796 milioni e 654 mila e 730 abitanti in questo pianeta. Ovviamente il dato scorre implacabile e impressionante.

Nel contempo, sempre in internet, scopro che nel mondo ci sono ben più di 8 miliardi di sim. Ci sono più sim che abitanti. Che cosa è una sim? É una sorta di avatar di ognuno di noi, un doppio, un alter ego, un nostro sostituto, potenzialmente in contatto con tutti gli altri avatar e quindi anche con tutti gli altri soggetti. 

Che ne è dell’identità?

Gli aspetti più promettenti e sconvolgenti nel mondo (o nei mondi) dell’IoT vengono indubbiamente dallo sviluppo del digital twin, del gemello digitale, cioè dalla possibilità di replica in virtuale di risorse fisiche, potenziali ed effettive, equivalenti a oggetti, processi, persone, luoghi, infrastrutture, sistemi e dispositivi. 

Che ne è dell’identità?

E poi che ne è dell’identità che non è solo speculare ma multipla.

Risposta non complicata, di più! 

Ma, visto che ho la presunzione solo di seminare dubbi ci proverò per un po’, settimana dopo settimana, attorno alla logica, all’etica e all’estetica, sperando di non trovarmi a percorrere gli impervi sentieri della teologia.

Il principio di identità sta a fondamento della logica come dell’etica che si costituisce con la filosofia e con la metafisica occidentale. La sua argomentazione (legittimità) si fonda sulla affermazione che una cosa non può essere nello stesso tempo A e non A, dal che ogni cosa per essere ciò che è non può che essere uguale a se stessa, A=A.

Questo modo di pensare e produrre si fonda sul primato della mimesi. Nella mimesi la tecnica è copia (nei modi delle logiche o procedure quanto delle forme) e quindi deve fare il possibile per assomigliare al modello: quando si raggiunge l’identico si raggiunge anche la perfezione e a darne conto è la matematica, la scienza delle scienze, la cui radice ma (sanscrita) rinvia sia al misurare che al costruire, al dare forma con la ma-no, ed è forse vicina anche al latino ma-ter, cioè alla sostanza prima. C’è molto di ancestrale sul quale riflettere.

Nelle parole si nascondono abissi primordiali. Tutte le civiltà trovano in questi abissi le proprie forme, ragioni, potenze o debolezze. Ma negli abissi sempre tutto si ri-muove tra identità e differenza. E allora il sotterraneo emerge o ri-emerge. E l’identità presunta si disperde scoprendo che il suo orgoglio è una palude.

E’ capitato anche all’orgoglioso Occidente con ciò che chiamiamo il digitale. Perché? Perché nel digitale A non è necessariamente uguale ad A e questo è evidente se invece di considerare le reciprocità formali consideriamo che c’è una differenza di posizione: il primo A è in posizione diversa dal secondo A. Ma persino la matematica si ritrova ad essere grandemente efficiente, ma non più trascendente, cioè assoluta (Gödel).

La logica della macchina universale di Turing non è forse una logica posizionale? E non è questa che fa sì che anche le macchine possano (anche se qualcuno non vuole proprio accettarlo) pensare, cioè essere in relazione? Il digitale è un fantastico e potentissimo virus che viene dagli abissi, e, per combatterlo, bisogna dominarlo guardandolo, a differenza di ciò che raccontano i miti antichi, negli occhi.