Il digitale tra perfezione e imperfezione

logo della rubrica Aristotele Digitale che mostra una scultura del filosofo, ma solo la testa

C’è stato in un qualche tempo e in un qualche luogo senza dubbio qualcuno che ha provato a rappresentare qualcosa ponendosi il problema di quanto la rappresentazione corrispondesse effettivamente alla cosa rappresentata. Da prima quel rappresentare era solo un modo per capire, per essere vicino alla cosa, o un tentativo di andare alla cosa stessa. Insomma, una pulsione più che legittima per non dire umanissima.

 

Indubbiamente un modo per essere nel mondo e forse anche per appropriarsi del mondo, facendo propria la cosa attraverso la sua rappresentazione. Ma poi c’è stato un tempo e un luogo nel quale qualcuno si è posto il problema di far in modo che la rappresentazione fosse il più simile possibile alla cosa rappresentata, diremmo all’originale. É così emersa con forza la questione della corrispondenza, della mimesis e, in ultimo, della parola perfezione.

 

Proprio così, penso che in quel momento la parola perfezione sia diventata decisamente molto significativa. Mentre prima segnalava ciò che è compiuto, magari facendo il meglio possibile, non necessariamente alludendo ad una condizione superlativa o di eccellenza, poi diventa invece ciò che è in sé completo (e questo “in sé” è molto significativo), che è buono, che niente di simile potrebbe essere meglio e, ancora, e significativamente, che la perfezione è ciò che ha raggiunto il suo scopo.

 

Così con Aristotele. É accaduto qualcosa: è nata la metafisica e nel contempo il mondo è stato finalizzato a qualcosa d’altro che non è il mondo, meglio qualcosa che ha come scopo solo se stesso. Sino ad allora se qualcuno dava un aggettivo al divino diceva tremendo, ma da allora ha cominciato a dire bello, buono, perfetto. Non passaggio di poco conto. 

Anche il nostro linguaggio si è trovato a dividersi tra imperfetto e perfetto. É così che è nata l’episteme, un sapere certo e in questo volitivamente perfetto. 

Ora sappiamo bene che la forza del linguaggio sta sì nella sua capacità di concettualizzare e quindi di cogliere le cose al di là di come appaiono, ma anche nella sua imperfezione; sappiamo bene che non riusciamo ad uscire dal paradosso del mentitore: “Se dico che sono un mentitore dico il vero o il falso?”. Sappiamo bene che forse non aveva tutti i torti il presocratico Empedocle a dire che la più grande perfezione è l’imperfezione e che, anche se il mondo, l’universo, la natura, ci appaiono perfetti devono però anche essere imperfetti altrimenti non starebbero nel tempo.

 

Ora se noi interpretiamo il digitale come l’esito di una episteme della perfezione e della certezza, continuiamo a volere un mondo presuntuosamente e astrattamente perfetto; se invece lo consideriamo come è, cioè un produttore di linguaggi nel contempo umanamente (meglio, biologicamente) perfetti e imperfetti, allora – forse – ritroveremo ciò che la poesia ci dice da sempre del nostro stesso linguaggio: quando nominiamo costruiamo mondi nel mondo.