Vittorio Gregotti nel trigesimo della sua morte

elaborazione grafica di Ben Bestetti, duomo di Milano bianco su cielo azzurro, in primo piano scritta: spazio Milano
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La morte di Vittorio Gregotti, il 15 marzo scorso, mi ha fatto naturalmente pensare: è stata la morte di qualcuno che aveva pressappoco la mia età, che era un architetto come me, anche se di maggior successo, di alto valore professionale ma non creativo e tanto meno poetico, e che aveva anche altri interessi culturali che gli hanno fatto onore. Tutti i giornali ne hanno parlato, ma penso che a breve non ne parlerà più nessuno.

É d’altra parte difficile parlare di architettura, come lui stesso sosteneva dicendo che l’architettura non interessa più a nessuno. Gli interventi di Vittorio Gregotti nel quartiere Zen e nella Bovisa gli danno purtroppo ragione. Abbiamo creduto di più a un’architettura attenta non solo alle sue astratte geometrie, ma ai valori più profondi dell’uomo che si sono espressi in ogni tempo nell’arte. Arte di costruire ma anche di immaginare, di sognare, di creare cose belle.

Arte che è invece diventata solo una gestione professionale, con risultati corretti ma purtroppo simili a troppi esempi di edilizia carceraria, con la conseguenza che ci ha talvolta imposto le fantasiosità ideologiche dell’architetto milanese e che ci fa piuttosto pensare non solo a tali edifici ma all’insieme della società moderna. Un’architettura fatta di uomini imprigionati dalla ragione economica e scientifica che oggi ci domina. Una ragione il cui squallore ci lascia ardentemente desiderare il fecondo ritorno dell’arte e della poesia nell’attività di fare case e città, non solo per gli uomini ma per le loro anime.