Il resiliente imperialismo di Putin e i vecchi errori dell’occidente

WInston Churchill, Franklin D. Roosevelt, Joseph Stalin alla Conferenza di Yalta, febbraio 1945. Occidente
WInston Churchill, Franklin D. Roosevelt, Joseph Stalin alla Conferenza di Yalta, febbraio 1945

Il terribile conflitto in corso in Ucraina sollecita una riflessione non solo sulle sue cause immediate, ma anche sulle politiche poste in atto dall’Occidente negli ultimi decenni.

Il collasso dell’URSS

Il collasso dell’URSS nei primi anni Novanta sembrava aprire nuove prospettive nelle relazioni internazionali. La riconquistata indipendenza degli Stati dell’Europa dell’Est, infatti, apparve irreversibile ed era quindi opportuno formulare una nuova strategia nelle relazioni con ciò che nasceva in Russia dalle ceneri del vecchio impero sovietico. Sarebbe stato opportuno porre le basi per una stabile pacificazione che avrebbe permesso a vincitori e vinti di cancellare, almeno parzialmente, le loro spese militari e intrecciare relazioni commerciali di mutua convenienza.

Allargando lo sguardo si poteva anche pensare di coinvolgere la Russia in un processo di crescita fondato su investimenti di capitali del Vecchio Continente verso Mosca. In cambio le materie prime di cui lo sterminato Paese ex sovietico è ricchissimo.

Il baratro morale del Cremlino

Si trattava soprattutto di fonti energetiche come il gas e il petrolio, che incominciarono ad essere esportati a Ovest in grandi quantità. Questo rapporto virtuoso avrebbe potuto funzionare se non si fosse scontrato con la pessima gestione economica – e il baratro morale – della nuova leadership che si insediò al Cremlino.

Si trattava in molti casi di ex ufficiali del KGB, che non avevano né mentalità imprenditoriale, né capacità politiche, interessati solo all’arricchimento personale e del loro entourage. Il risultato fu che, malgrado i fiumi di denaro che affluivano in Russia, il Paese non registrò alcuno sviluppo economico.

Solo l’esercito usufruiva del 25% circa del bilancio statale, una cifra enorme se consideriamo che la media degli altri Paesi industrializzati era del 2%. Putin, arrivato al potere, lo consolidò mantenendo le spese militari su questo livello e tentando di combattere la corruzione e il disordine che dilagavano dopo la caduta del vecchio sistema.

L’era di Putin

Su questo fronte egli fece registrare successi notevoli. L’ordine pubblico fu rispristinato e gli enti statali ricominciarono a funzionare. Ma la manovra ebbe un costo, e cioè una svolta verso quel regime poliziesco dal quale il Paese era appena uscito. La parte più cosciente dell’opinione pubblica tentò di ribellarsi a tale andamento, ma le uccisioni di giornalisti e di oppositori politici mostrarono che la nuova leadership affaristico-criminale insediatasi al Cremlino aveva potere sufficiente per agire nell’illegalità e mantenere il proprio potere.

Il mancato decollo del Paese fece mancare a Putin soprattutto il consenso dei giovani. Questi ultimi, incominciando a viaggiare cominciarono a prendere confidenza con le pratiche democratiche dei Paesi occidentali. E anche chi non viaggiava, grazie a internet entrava in contatto con una cultura e una abitudine alla critica sconosciuta alle generazioni precedenti. Purtroppo si trattava – e si tratta ancora – di una minoranza. La grande massa della popolazione russa non vive nelle metropoli ma nelle piccole città che punteggiano gli spazi sterminati del Paese, dove ancora si possono vedere intatte statue di Stalin campeggiare nelle piazze.

La crescita della militarizzazione dell’Europa

Politicamente il crollo dell’URSS poteva portare una cultura di pace nell’Europa orientale, con il ritiro degli occupanti russi e con adeguati trattati di assistenza stretti con la Nato. Ma non fu così. I politici occidentali ritennero che prima o poi la Russia sarebbe tornata a minacciare l’Est europeo e che quindi occorreva rafforzare militarmente i Paesi resisi indipendenti. L’idea della neutralità di una vasta area, che si estendesse dal Baltico al Mar Nero, non fu neanche presa in considerazione. Così, paradossalmente la fine della guerra fredda corrispose a una crescita della militarizzazione dell’Europa.

Tuttavia la leadership politica tedesca, dominata per quindici anni dalla forte personalità di Angela Merkel, credeva fermamente nella possibilità di coinvolgere la nuova Russia in una collaborazione economica che si sarebbe accompagnata a una democratizzazione delle sue strutture politiche. Sulla scia di Berlino anche molte altre capitali europee incominciarono a rifornirsi di risorse energetiche da Mosca. Nella convinzione che non vi fossero motivi che ne potessero mettere in discussione la continuità. Ma il calcolo si rivelò errato.

Infatti, la nuova Russia di Putin non aveva accettato l’esito della guerra fredda e rafforzava il suo dispositivo militare.

Gli USA

In quest’ottica agli Usa appariva assurda l’idea di un’Europa dipendente energeticamente da Mosca, soprattutto considerando che le truppe Nato continuavano a essere schierate sul continente. D’altra parte, dopo il crollo dell’URSS, la Nato per varie ragioni attaccò vecchi alleati della Russia sovietica. La Serbia fu privata della sua regione storica del Kosovo, l’Iraq venne devastato e smembrato a seguito di due sanguinosissime guerre, e la stessa sorte toccò successivamente alla Libia. 

Eguale manovra fu tentata nei confronti della Siria. Era abbastanza facile convincere i russi, che non perdevano occasione per celebrare i propri eroi della seconda guerra mondiale, che l’Occidente stava umiliando Mosca approfittando della sua momentanea debolezza militare. Da ciò derivava il consenso a una politica di riarmo che riaffermasse l’importanza planetaria di una potenza nucleare come la Russia.

La società russa

Ma l’ostilità strisciante verso l’Occidente aveva – e ha – anche un aspetto culturale e antropologico. La società russa, prevalentemente conservatrice, considera negativamente alcune svolte che nella coscienza dell’Ovest vengono considerate conquiste di diritti civili. Tutta la tematica dell’omosessualità e della famiglia ha assunto un ruolo centrale nella propaganda del Cremlino. L’omosessualità viene considerata non solo innaturale ma anche antipatriottica e condannata con una durezza impressionante. 

Per il cittadino russo essa è la dimostrazione più evidente della decadenza di una società che preferisce i consumi egoistici alla collettività. La Chiesa cristiano ortodossa appoggia energicamente questa posizione. Arrivando a giustificare anche la guerra se si tratta di difendere il valore della famiglia tradizionale insidiato dall’Occidente corrotto.

La mia casa è il mio castello

Nella lingua russa ricorre un’espressione che non troveremmo mai nei linguaggi occidentali: la mia casa è il mio castello. Non bisogna fidarsi di chi si avvicina ai tuoi confini perché nella maggioranza dei casi sarà qualcuno che devi tenere a distanza. Non devi rispondere alle sue domande, non devi rivelare nulla che egli possa usare per nuocerti. Né devi credere nella sua amicizia a meno che non ci sia un nemico comune contro il quale combattere. Questa concezione pessimistica delle relazioni con il diverso è ampiamente giustificata dal passato storico della Russia.

Uno stato di guerra quasi perenne

Buona parte della Russia europea, fra il 1237 e il 1480, subì la dura dominazione mongola che avrebbe inciso a lungo sui costumi della popolazione. Dopo la liberazione dai mongoli, la Russia fu aggredita nel 1708 da Carlo XII di Svezia. Sarebbe venuta poi la campagna napoleonica e infine la tragica invasione hitleriana. Perché ricordare eventi tanto lontani? Libertà e democrazia fioriscono con maggiore facilità in collettività che riescono a sfuggire alle brutalità della guerra per periodi di tempo piuttosto lunghi. Invece uno stato di guerra quasi perenne genera inevitabilmente da una parte l’aggressività necessaria per la legittima difesa, dall’altra l’abitudine ad obbedire senza discutere, come avviene normalmente in tutti gli eserciti in guerra. 

Purtroppo l’obbedienza acritica, nel nostro caso della Russia supportata dalle autorità religiose, ostacola lo sviluppo della pluralità delle idee, del confronto pacifico che stanno alla base delle istituzioni liberaldemocratiche. Per tale ragione non bisogna chiedersi le ragioni dell’obbedienza acritica dei russi nei confronti dell’autorità. Essa è un fondamento, se non il fondamento, della compattezza e della salvezza nazionale.

L’attacco all’Occidente

Possiamo invece chiederci perché proprio adesso la leadership russa ha deciso di iniziare il suo attacco all’Occidente. Le ragioni sono varie. Le vicende dell’Afghanistan hanno messo in primo piano l’impotenza delle grandi ambizioni dell’America e anche la sua incapacità di concludere dignitosamente quella ventennale avventura bellica. Il disastroso quadriennio trumpiano ha dato l’impressione di una democrazia impazzita che sconvolgeva con scelte improvvisate l’ordine mondiale. L’incredibile assalto a Capitol Hill mostrò in diretta a tutto il mondo quanto l’irrazionalità avesse fatto presa su una parte non indifferente della popolazione americana. 

Dall’altra parte dell’Atlantico un’Unione Europea, abbandonata dal Regno Unito, disarmata e inerte, paralizzata dai conflitti fra vecchi e nuovi Paesi membri, mostrava quanto faticoso fosse il funzionamento della democrazia. Il ripiegamento sui nazionalismi, ribattezzati sovranismi fece il resto. Di fronte al gigante cinese che mostrava la sua vitalità (nascondendo le sue debolezze) sembrò che il tramonto dell’Occidente si avvicinasse a grandi passi.

La guerra ha puntato i suoi riflettori su questo groviglio di problemi e presumibilmente spingerà i politici a prese di posizione su quanto sta avvenendo. Una nuova Yalta, dovrà disegnare confini, interessi, garanzie che, per qualche decennio, evitino almeno altri conflitti e sarebbe augurabile che funzionasse almeno quanto ha funzionato la prima. 

 

 

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