
Giovanni Michelucci non solo è vissuto cent’anni ma, con la sua Fondazione ha voglia di vivere ancora, come dimostra la celebrazione dei trent’anni dalla sua morte che essa si appresta a fare.
Continua a vivere anche il mito del “grande Architetto” che i Fiorentini hanno inventato, evidentemente immemori dei veri e grandissimi architetti della storia di Firenze.
C’è, a dir il vero, un’opera che potrebbe meritare questa valutazione: è la Stazione di Firenze, un’opera di schietta modernità, che è veramente bella, ma è di Michelucci? Non proprio, anche se egli sembra essere stato il solo ad averne gli onori, poiché sono rimasti un po’ in disparte gli altri membri del “Gruppo Toscano” che avevano lavorato sul progetto, un gruppo di giovani architetti, tutti sui ventisette anni mentre Michelucci ne aveva quarantuno e quindi, per ragioni anagrafiche, era capofila del gruppo. Un’opera in cui si sente il vigore e l’entusiasmo della giovinezza.
Quanto al “grande architetto”, che sarebbe, dicono, anche un poeta, si dovrebbe poter vedere in quest’opera un primo segno del suo stile, che le opere successive avrebbero confermato e sviluppato. Invece esse sono banalissime, per non dire brutte, nulla in comune con il capolavoro della Stazione.
Passando oltre la Cassa di Risparmio di Firenze, che mi sembra appunto abbastanza banale, l’orribile grattacielo di Livorno e la Direzione Provinciale delle Poste e Telegrafi di Firenze che ha finito di rovinare la Via Pietrapiana, già ferita da precedenti demolizioni, eccoci all’altro “capolavoro”: la Chiesa dell’Autostrada del Sole, che mi sembra un compendio non tanto delle opere precedenti quanto degli innumerevoli schizzi che l’architetto ci ha lasciato. Essi ci mostrano il misterioso substrato psicologico di un uomo ossessionato da una confusione interiore simile a un’intricatissima foresta, da cui cerca di districarsi cercando e creando dei puntelli, proprio come quelli che si vedono nella Chiesa e in altre sue opere. Spesso essi sono come alberi, presi dalla natura di cui era un vero amante, ma di cui non ha forse colto interamente la bellezza e l’equilibrio.
Che distanza e anzi che incredibile diversità e estraneità rispetto al limpido progetto della Stazione che, oltre ad essere di tanti anni prima, non faceva evidentemente parte del suo mondo. Ma che distanza anche da un retto sentire, tanto religioso quanto architettonico, da cui l’architetto si è allontanato. Forse, guardando a Rochamp, si credeva un nuovo Le Corbusier? Certo si è allontanato dalla misura toscana a cui avrebbe dovuto attenersi, come ha fatto in opere minori e non ossessionate dalla fama di essere considerato un “grande architetto”.
Non conosco i suoi scritti sulla città, di cui anche la sua Fondazione si occupa, e mi limito a sperare che essi siano di un più alto livello rispetto ai confusi schizzi che ha dedicato alla ricostruzione del quartiere del Ponte Vecchio, che poi è stata fatta in un modo non meno “penoso”, che anch’egli ha giustamente criticato.
Purtroppo la Firenze che si gloria della sua opera non è più quella dei secoli d’oro in cui c’erano ben altre opere di cui gloriarsi. Non solo la Fondazione, creata da Michelucci stesso, ma il Comune di Firenze, la Regione Toscana e la Cassa di Risparmio sono concordi nel sostenerne il mito,come se ciò fosse sufficiente per far dimenticare la mediocrità del presente.
Un mito che mi sembra quindi da ridimensionare, con tutto il rispetto per l’uomo e per i suoi migliori contributi a un tempo così difficile.
Caro Vittorio, condivido tutto quello che hai scritto in questo magnifico pezzo. Aggiungo una cosa, Michelucci non sapeva “lavorare” l’acciaio e ce lo dimostra nella banca [Cassa di Risparmio] realizzata a Colle Val d’Elsa. Io che l’ho conosciuto personalmente e l’ho più volte incontrato nella sua abitazione di Fiesole, oggi sede della Fondazione che porta il suo nome, trovo in Michelucci delle qualità che vanno oltre le cose che ha progettato [che sono di mediocre valore, appunto]. Te ne parlerò la prossima volta che sarò a Milano per trascorrere qualche ora con te. Un caro saluto. Claudio Cantella
Gentile Architetto,
suppongo che Vittorio Mazzucconi, che firma questo articolo, sia lei, l’architetto, pittore e filosofo di cui ho visto su Internet tante opere. Complimenti! Quanto a Firenze, vedo che ha la discrezione di non citare la sua opera – “La Città Nascente”, con cui ha offerto alla città uno stupendo progetto per la trasformazione del suo centro, sfigurato alla fine dell’ottocento nonché nell’ultimo dopoguerra.
Un progetto con cui non sono neppure paragonabili i contributi degli “addetti ai lavori” e più in generale della povera cultura di un tempo come il nostro, ben lontano dalle glorie della Firenze di un tempo.
Vorrei quindi aggiungere alle sue sconsolate parole sulla Firenze “com’è”, la menzione di un progetto che mostra “come dovrebbe essere”.
Peter Bianchi
Gentile Architetto,
mi astengo dalla istintiva tentazione di essere genericamente d’accordo con Lei.
Intuisco che se uno spirito libero ed una mente raffinata come la Sua propone questa riflessione non può essere solo per una generica e personalistica dichiarazione sul merito di un architetto di un tempo ormai passato ma piuttosto su come egli abbia marcato, con il suo pensiero e la sua opera, il contesto al suo tempo e soprattutto nel tempi a venire e quindi fino ad oggi.
Innanzitutto un Mito può essere ridimensionato?
Il Mito è una rappresentazione condivisa di una realtà che assume tale generalità e pienezza da assumere caratteri di spiritualità come una visione assoluta che diventa fondamento, misura e metodo di tutte le altre, anche oltre l’apparente ragione delle cose.
In tali termini non è ridimensionabile senza snaturare se stesso. Un Mito o è o non è.
Non penso che l’architettura ed il pensiero di Michelucci possano avere la dimensione di Mito né altresì penso che lui stesso si sia mai posto questo obiettivo.
Forse non ha rappresentato così a pieno, fino alla dimensione del possibile mito, la nostra necessità di una dimensione spirituale nel nostro fare. O forse abbiamo perso la nostra capacità di accogliere una dimensione spirituale ed andiamo a ritroso per capire dove questo possa essere successo. Forse abbiamo confuso le cose che Michelucci evocava e quelle che effettivamente progettava e realizzava, in assoluto non sempre in linea con le sue autentiche motivazioni, che però non possiamo negare esistessero e fossero di alto profilo. Forse dovremmo cercare di capire dove quelle motivazioni hanno perso la catena della continuità della trasmissione della motivazione che a volte si esprime per analogia ed affinità e a volte per contrasto e ridefinizione creativa.
La verità è che dopo di lui tutti si sono vestiti del suo pensiero per essere credibili di fronte ad un nulla creativo. Si è creata allo scopo una “Scuola Toscana” che non esiste e non è mai esistita ed ancora è utilizzata per millantare autorevolezza.
La nostra è l’era del Manierismo del Nulla. Si discerne sulle sofisticazioni di linguaggio per distinguere il Niente dal Nulla. L’esito più ovvio e più coerente è il Non Fare. Tutto lasciato così com’è, un trionfo della Non Vita, espressione del Non Pensiero.
La verità è che non abbiamo Miti né da usare, né da ridimensionare.
Si tratta di un problema che, sciaguratamente, non abbiamo.
Gentile Massimo Lastrucci,
non menzionavo il mito nel senso colto di cui lei parla, ma in quello più semplice e ordinario di qualcosa “che non corrisponde alla realtà”, come un’opinione comune che tende a diventare una leggenda. Tale appunto mi è sembrata l’opinione sull’opera di Michelucci, che mi sono quindi permesso di criticare, perché non è appunto quella del “grande architetto” che si dice. Che poi ci fosse una differenza fra “le cose che Michelucci evocava e quelle che effettivamente progettava e realizzava”, come lei dice, non posso saperlo ma non sarebbe un caso isolato. Anche Gropius, che passa per essere un grande architetto, era in realtà uno pessimo, pur essendo un ottimo educatore.
Anche Michelucci lo è probabilmente stato, con molto merito sia sul piano professionale che su quello umano, ma c’è purtroppo qualcosa nel nostro tempo che produce fraintendimenti, falsità e sofisticazioni, che lei chiama giustamente “Manierismi del nulla”, il nulla appunto a cui conduce la nostra civiltà. Una degenerazione che può essere talvolta espressa anche in vere opere d’arte ma, quando invece ne produce di brutte, ci possiamo chiedere che valore abbiano anche i migliori insegnamenti da cui esse sono uscite.